Immagina la scena, anche perché l’hai già vista più volte in questi giorni: con ChatGPT nel giro di pochi minuti, la tua action figure personalizzata prende forma. È successo in queste settimane dove nei vari social media sono andati in onda tanti sé miniaturizzati, riproduzioni digitali dell’io. Rifiniti nei dettagli: lucidi, con sguardo leggermente vitreo, ma molto simile al vero spontaneo. Un gadget da scrivania che ci ha rappresentato… ma secondo quale immagine? L’avvento dell’era della personalizzazione seriale, dove l’intelligenza artificiale ci invita a giocare con la nostra identità, moltiplicandola in infinite varianti editabili. Ci promette creatività, espressione, libertà. Ma solo entro i confini del conforme. E così l’action figure — un tempo oggetto per bambini o appannaggio della cultura nerd — si trasforma nel simbolo perfetto del nuovo sé: progettato, addomesticato, pronto per essere esibito. Cosa accade quando è un algoritmo a restituirci una versione di noi stessi che appare su misura, ma è in realtà una sintesi statistica delle nostre possibilità di piacere?
La mutazione del giocattolo e la regia invisibile dell’Ai
Il giocattolo, da sempre, riflette l’immaginario di un’epoca. Barbie, G.I. Joe, i pupazzi dei cartoni animati: ogni generazione ha proiettato i propri desideri, ruoli e sogni dentro forme plastiche e articolate, spesso più eloquenti di un libro di sociologia. Ma oggi, qualcosa è cambiato in modo radicale. Il giocattolo siamo diventati noi. Con l’arrivo di piattaforme che permettono di trasformare un semplice selfie in un modello tridimensionale stampabile — magari aggiungendo parametri come tratti psicologici, status sociale o mood espressivo — l’action figure ha smesso di rappresentare l’eroe che sogniamo. Ora è la miniatura dell’identità che vogliamo controllare. Non è più un gioco di ruolo, ma un gioco di branding. Non proiettiamo più aspirazioni in altri personaggi: congeliamo una versione di noi stessi, calibrata per piacere, per circolare, per vendersi bene. Un sé in posa. Statico, riconoscibile, capitalizzabile. L’intelligenza artificiale, in questo contesto, è molto più che un semplice strumento creativo. È un ingegnere dell’identità.
Ogni nostra rappresentazione diventa, di fatto, un oggetto da produrre. E ogni oggetto prodotto è anche potenzialmente valutabile, confrontabile, monetizzabile. Il sé si trasforma in un asset, in una versione “imballabile” dell’io. A quel punto, la distinzione tra identità e packaging si fa sottile, quasi impercettibile. Ora rischia di essere un contenitore vuoto, perfettamente sagomato sulla nostra estetica ideale. Ma se siamo noi il giocattolo, chi è che davvero ci sta giocando? L’intelligenza artificiale generativa che non è uno strumento neutro. Non si limita a darci ciò che chiediamo. Ci restituisce ciò che è già stato accettato. E lo fa in modo sorprendente, elegante, raffinato — tanto da farcelo sembrare nuovo. Quello che vediamo, generiamo, condividiamo non è mai davvero creato da zero. È una combinazione sofisticata di elementi già noti, di pattern estetici, narrativi, culturali che hanno già funzionato in passato. L’AI non fa altro che prendere l’omologato e renderlo originale all’apparenza. O forse davvero originario: cioè che viene dall’origine.
La creatività, così, diventa un gioco a incastro: tanto più un contenuto è conforme al gusto diffuso, tanto più l’algoritmo lo propone come personalizzato. Basta saperne l’origine, appunto.
Il paradosso è evidente: più cerchiamo unicità, più otteniamo varianti del già visto. Più inseguiamo la personalizzazione, più rientriamo nel frame invisibile del già approvato. Come direbbe Jean Baudrillard il consumatore oggi non vuole solo possedere un oggetto: vuole essere l’oggetto. E nel mondo dei social, dell’AI e degli avatar, essere un oggetto riconoscibile è un vantaggio competitivo. Significa poter essere inseriti nel catalogo del visibile. Essere leggibili, condivisibili, brandizzabili.
Verso un nuovo immaginario: rompere il formato
La vera sfida, oggi, non è più quella di usare l’intelligenza artificiale per produrre più contenuti.
Di contenuti ne abbiamo già troppi. Quello che manca, semmai, è il coraggio di generare contenuti che mettano in discussione ciò che già conosciamo. Perché l’Ai ha un potenziale enorme — non tanto nel replicare lo stile umano, ma nell’ espandere le possibilità del pensabile.
Può aiutarci a costruire linguaggi nuovi, immaginari alternativi, estetiche che non rispondono solo al principio del “piace”, ma anche a quello del “disorienta”. Ma per fare questo, serve un cambio di postura radicale. Bisogna smettere di chiedere all’AI di essere efficiente. Smettere di usarla per generare versioni più rapide, più belle, più condivisibili di ciò che già conosciamo.
E iniziare a usarla per fare esattamente l’opposto: per rischiare, per sperimentare, per rompere il formato. L’action figure che ancora non esiste — quella veramente interessante — non sarà perfetta. Non sarà virale. Non ci somiglierà affatto. E probabilmente, alla prima occhiata, sembrerà addirittura sbagliata. Ma sarà proprio quella a creare uno scarto, a introdurre una frattura nell’estetica dominante. A proporre un’altra possibilità di rappresentazione. Una via laterale. Un’imperfezione che apre varchi. Perché forse il vero uso creativo dell’Ai non è modellare il sé perfetto, lucidato, coerente e prevedibile…ma dare forma a quello che il sé non è ancora diventato. A ciò che ancora non ha un volto, che non si può descrivere con un prompt. Che non è “in target”, ma che può — proprio per questo — spostare il target stesso. In un mondo dove tutto tende alla compatibilità, l’Ai può diventare strumento per produrre l’incompatibile. Per mettere in crisi lo sguardo e per farci perdere — almeno per un attimo — le coordinate di ciò che è già noto.
Oltre il sé giocattolo
L’intelligenza artificiale ci offre un potere straordinario: quello di generare, ripensare, moltiplicare versioni di noi stessi potenzialmente all’infinito. Possiamo ricrearci, raccontarci, rappresentarci. Ma finché questa possibilità resta intrappolata nei formati dell’efficacia, della compatibilità, della viralità… continueremo a partorire solo variazioni raffinate del già visto.
Un sé ottimizzato, prevedibile, social-friendly. Se vogliamo davvero compiere un salto creativo, serve un cambio di sguardo. Dobbiamo abbandonare l’ossessione per il sé da perfezionare. Quel sé da migliorare costantemente, da rendere più performante, più fotogenico, più coerente con l’immaginario dominante. Forse la prossima frontiera della creatività — e forse anche della tecnologia — è il coraggio di generare l’improbabile. Il difettoso. L’asimmetrico. Ciò che non è immediatamente leggibile. Ciò che non vuole piacere a tutti. È il momento di smettere di costruire giocattoli perfetti con la nostra faccia sopra. E cominciare a giocare davvero con l’immaginazione. Un gioco che non cerca la replica, ma l’apertura. Un ludus che non chiede di riconoscersi subito, ma di esplorare chi potremmo essere oltre lo specchio, oltre il formato, oltre la figura.
Fonte : Wired