“In Europa abbiamo le migliori menti al mondo. Così possiamo ottenere l’indipendenza tecnologia”

“L’Europa per troppi anni non ha preso sul serio la digitalizzazione. Ora è diventata un’urgenza geopolitica e dobbiamo recuperare il terreno perso. Ma c’è una buona notizia: abbiamo il migliore capitale umano al mondo e possiamo farcela”. Massimiliano Magrini è managing partner di United Ventures, tra i principali fondi di venture capital italiani con 500 milioni di patrimonio in gestione. È considerato uno dei pionieri dell’economia digitale nazionale: negli anni Novanta ha lanciato prima Altavista, uno dei primi motori di ricerca al mondo, poi Google. Con United Venture ha finanziato decine di startup di successo, quando ancora di startup in Italia si parlava pochissimo. Tra queste Moneyfarm, Fiscozen, Musixmatch. “Il mercato dell’innovazione italiana ha fatto grossi passi avanti negli ultimi dieci anni. La direzione è quella giusta, ma adesso serve un cambio di passo”.

Magrini, le tensioni internazionali hanno dato una scossa all’Europa e oggi il digitale e l’innovazione in settori strategici hanno acquisito una centralità che prima non avevano. La ricetta di Bruxelles sembra ricalcare quello che voi operatori del settore chiedevano da anni. Immagino sia soddisfatto.

“Sì, la direzione sembra essere quella giusta, ma la verità è che l’Europa per troppi anni non ha preso sul serio la digitalizzazione. Il digitale è sempre stato visto come un figlio minore delle telecomunicazioni, quindi abbiamo delegato questi temi a operatori non europei. Ora la realtà presenta il conto. Le questioni geopolitiche hanno portato il digitale al centro dell’agenda, perché oggi si sa che dal digitale passano le politiche per la difesa, di sviluppo, di indipendenza tecnologica. Dobbiamo recuperare il terreno perduto”.

È tardi?

“No. L’Europa può farcela, ma solo perché nella ricerca e nelle nuove tecnologie ha le migliori menti al mondo. I ricercatori europei, le università europee, gli innovatori europei continuano a essere eccellenze mondiali”.

Avere il migliore capitale al mondo finora non si è tradotto in avere le migliori tecnologie al mondo. Cosa manca?

“L’Europa, se vuole smarcarsi dalla dipendenza tecnologica e recuperare terreno, deve agire su due fronti: uno più difensivo, che è quello delle regole per difendersi, soprattutto in chiave antitrust; uno più offensivo, ovvero dotarsi di un’industria tecnologica in grado di giocare un ruolo nel mondo. L’Europa deve smettere di essere solo un mercato, non può nemmeno pensare di esserlo considerato che è la prima al mondo per incasso fiscale. Occorre costruire un mercato unico dei capitali a livello europeo. È quella la chiave per portare più liquidità nel sistema e più capacità di sviluppo di campioni europei dell’innovazione”.

È uno dei temi centrali dell’agenda Draghi.

“Bene che lo dica Draghi, ma noi lo diciamo da anni. È evidente che se l’Europa vuole cambiare passo deve pensarsi come un unico mercato, anche per quanto riguarda gli investimenti. Ma soprattutto manca un altro elemento: dei consolidati europei”.

Può spiegarci cosa intende?

“Grandi aziende tecnologiche europee in grado di fare acquisizioni nel mercato europeo delle startup. Quello che avviene normalmente negli Usa con i grandi colossi del digitale. Ciò che ancora manca è un approccio positivo delle imprese alle startup tecnologiche. Ma va capito che il mito dei 4 ragazzi in un garage che fanno un’azienda non funziona più, non basta più. L’innovazione è un pezzo fondamentale per il futuro. E oggi ci sono startup che potrebbero avere la soluzione a molti dei problemi dell’Italia”.

Se l’Europa sembra essersi svegliata sul tema digitale, è merito di Trump?

“Trump ha avuto un ruolo, certamente è un acceleratore di questo processo. Sta di fatto che oggi c’è un incentivo esterno molto forte a fare cose che finora non sono state fatte. E questo, di nuovo, torna a vantaggio dell’Europa perché tantissimi ricercatori e professori europei che hanno fatto carriera negli Usa oggi vogliono tornare nei loro paesi di origine, nel Vecchio continente. O per il cambio di clima politico, o per il cambio delle governance delle università”.

Uno dei politici americani più vicini a Donald Trump, Brendan Carr, lunedì ha detto che l’Europa deve scegliere se, dal punto di vista tecnologico, vuole stare con gli Usa o con la Cina. Siamo terra di mezzo tra due superpotenze?

“Oggi è così. Secondo me però, per resistere e giocartela con questi mercati, devi avere una posizione solida, anche dal punto di vista tecnologico. Oggi non ce l’abbiamo. Siamo solo un mercato. E se sei solo un mercato non puoi governare questi processi. Non puoi negoziare. Non puoi decidere nulla se non da una posizione di subordinazione”.

Quello che colpisce delle parole di Carr è che emerge una Cina già in grado di essere per l’Europa un’alternativa agli Usa, soprattutto in campo tecnologico. È davvero così?

“Sì, la Cina è già un’alternativa agli Usa in ogni settore della tecnologia. È presente in ogni filiera tecnologica. Il caso Deepseek, giusto per prendere il più famoso, ha dimostrato che sui modelli linguistici di grandi dimensioni americani (LLM, come ChatGpt, Claude o Perplexity, ndr), c’era una narrazione finalizzata a giustificare l’iper capitalizzazione di queste aziende. In pratica si è cercato di far credere che tutti i miliardi investiti in queste aziende servissero a garantire un primato tecnologico e ad alzare la barriera psicologica di ingresso. Deepseek ha dimostrato che non era vero. Hanno fatto qualcosa di simile con molti meno soldi. Hanno dimostrato che le sfide della tecnologia sono aperte”.

Cosa può imparare l’Europa da questa vicenda?

“C’è una frase che mi piace ripetere, è un po’ il mio mantra: non è mai troppo tardi per fare le cose giuste”.

Tornando all’IA, molti raccontano di un clima di sottile tensione tra gli investitori. Si teme che come tecnologia porti naturalmente alla nascita di un’azienda capace di conquistare tutto il mercato.

“Questa tensione c’è e fa parte del gioco. La logica è simile a Risiko: metti i tuoi carri armati non perché sei certo di vincere, ma perché vuoi essere pronto a giocartela. E l’Europa dovrebbe fare lo stesso. L’idea che ‘sia troppo tardi’ è spesso una narrazione di comodo”.

Bankitalia martedì ha pubblicato uno studio. Dice che in Italia ci sono poche aziende davvero innovative, che il mercato del venture capital è troppo piccolo, che è troppo difficile disinvestire. Sembra una fotografia uguale a quella che si sarebbe potuta scattare dieci anni fa, non crede?

“È vero, molti dei problemi sembrano immutati. Ma rispetto a dieci anni fa, siamo passati da 100 milioni a 2 miliardi di investimenti, qualcosa si è mosso. Il punto è: che tipo di partita vogliamo giocare? Se ci confrontiamo con il resto d’Europa, il nostro ecosistema ha più similitudini che differenze. Cassa depositi e prestiti ha avuto un ruolo importante nel supporto al sistema del venture, come lo hanno avuto attori pubblici in Francia e Germania. Ora però serve uno scatto. Serve un mercato dei capitali europeo interconnesso, servono fondi di venture capital più ambiziosi e specializzati in deep tech, e, soprattutto, servono aggregatori di tecnologia paneuropei, capaci di scalare e integrare startup in filiere industriali. È lì che oggi manca un pezzo fondamentale dell’ecosistema”.

Fonte : Repubblica