Questo articolo fa parte di una serie in cui l’autrice racconta gli impatti personali, affettivi e sociali di un tumore diagnosticato all’età di trent’anni.
Nella notte tra sabato e domenica mi sono decolorata i capelli.
Io, la stessa persona che quando chiede una spuntatina intende proprio qualche millimetro, che non va dalla parrucchiera senza una foto d’esempio approvata da amici e parenti, che ama i Green Day dai tempi delle medie, ma la cosa più trasgressiva mai fatta con i capelli è stata uscire un paio di volte lasciandoli sciolti.
Nei giorni precedenti l’ho ripetuto così tante volte che il mio compagno, dopo essere passato davanti a uno di quei negozi per l’igiene della persona e della casa, ha fatto inversione a una rotonda e mi ha obbligato a entrarci. Anche se infilarsi in un posto il cui slogan è: “Puliti e profumati” con una macchia di gelato sulla maglietta dovrebbe essere vietato.
La commessa interpellata si chiama Alessandra e, per me, che amo le coincidenze, è stato il chiaro segno che dovessi farlo. Lei ha iniziato a trasportarmi nel magico mondo dei volumi di ossigeno, di toner e riflessanti, di shampoo viola antigiallo, che letto nero su bianco, anzi viola su giallo, mi sa di leggera contraddizione, di miscele da usare con parsimonia e guanti, di cautela, enorme cautela, quando si decide di fare tra le piastrelle del bagno domestico una roba per la quale della gente ha studiato e fatto pratica su delle testine inanimate. Erano giorni, anzi settimane, che ogni secondo libero della mia giornata la mia testa tornava lì: devi cambiare.
Una sorta di ribellione adolescenziale postuma e immotivata che però mi muoveva a cercare articoli, video Youtube, a chiedere a tutte le persone che incontravo con dei colori di capelli piuttosto distanti da ciò che si trova in natura: “Ehi, ma tu come te li fai?”. La risposta era sempre una, chiara, prevedibile: “Vado da un parrucchiere”. Ah, in tutto questo processo, mi sono resa conto scrivendo queste righe, che ho dimenticato la cosa più importante, chiedere ai miei medici se potessi farlo, quindi spero non mi stiano leggendo.
Dopo la chemioterapia, ho quattro peli in testa, di colore e consistenza indefinita, ma appena ho provato a dire a chiunque che ero decisa a improvvisare con rasoio e misture casalinghe apriti cielo. Io dopo aver visto tutte le mie ciocche cadere nel giro di trentasei ore mi sento tranquillissima all’idea di improvvisare e, nel caso, rasare tutto e ricominciare, ancora una volta, da zero, ma gli altri no. Perché?
Mentre me ne stavo lì con il pappone grigino chimico in testa e i guanti di lattice sulle mani ho avuto un’epifania degna di James Joyce.
Non avevo capito perché non volessi andare dalla parrucchiera in maniera così ostinata, non ho mai avuto problemi specifici con la categoria, fino a quando, seduta sul water chiuso, con la maglia più brutta di tutto il mio armadio, ho iniziato a ridere di gusto e sono stata investita da una felicità senza senso, profonda e luminosa, senza sapere ancora come sarebbero stati i miei capelli, perché in quel piccolo, leggermente folle, gesto mi ero riappropriata del mio corpo.
Fonte : Wired