La comunità siriana in Giordania (1,3 milioni) resta intrappolata tra povertà e tagli agli aiuti internazionali, aumentati dopo la caduta del regime. Secondo l’Unhcr in pochi hanno fatto ritorno. “La mia casa è distrutta, non c’è lavoro, come posso tornare?”, dice un siriano ad AsiaNews. A Mafraq, vicino al campo Za’atari, le comunità sopravvivono nella precarietà. I rapporti tra Amman e Damasco riaccendono speranze, ma il futuro resta incerto.
Amman (AsiaNews) – Quando lo scorso 8 dicembre la notizia della caduta del regime di Bashar al-Assad è giunta in Giordania è stato come “ricevere dal medico il messaggio di guarigione da una malattia incurabile”. Abu Hassan ha una data scolpita nell’esistenza sua e della sua famiglia: 23 marzo 2013. Il giorno in cui lasciarono la Siria, abbandonando la loro casa a Ghutah, nelle terre coltivate che circondano Damasco, colpite pesantemente dalle forze governative. “Quando siamo arrivati qui questa terra era vuota”, dice indicando intorno e reggendo tra le mani un narciso dal “profumo di casa”. Da 12 anni sono stabili a Mafraq, estremo nord del regno Hashemita, a 15 km dal confine.
Quando 14 famiglie siriane si riunirono in un appezzamento desertico sorse inizialmente un campo informale con tende e alloggi temporanei. Poi, man mano che negli anni la permanenza in Giordania divenne la prospettiva più sicura, l’insediamento si trasformò in un vero villaggio. Grazie agli aiuti di numerose organizzazioni tra cui Caritas Jordan e l’associazione italiana Non Dalla Guerra. “Avevamo speranza nel futuro. Pian piano abbiamo ricostruito, per una vita dignitosa, non da rifugiati”, racconta. La comunità siriana qui stabilita conta oggi 24 famiglie. Dal villaggio, quando cala la sera, si scorgono le luci di là della frontiera, e la macchia luminosa indistinta del campo Za’atari, il più grande del Medio Oriente, primo luogo di approdo di molte persone siriane in fuga dal 2011 verso la Giordania (1,3 milioni).
Ora, con la Siria che attraversa una nuova fase sociale e politica – all’insegna della “ricostruzione”, con il governo ad interim impegnato a guidare un quinquennale progetto costituzionale – il sogno di casa si fa ancora più intenso. E il nome del dittatore Bashar al-Assad torna a riempire le bocche, dopo anni di sussurri e non detti. “Quando torneremo…”, scandisce Abu Hassan. “Mi sento come un albero secco. Quando torneremo sarà come ricevere tutta l’acqua che non mi è stata data per anni”. Ma l’incertezza è ancora molta. Secondo l’Unhcr da dicembre solo una piccola percentuale (circa 302mila) di siriani ha fatto ritorno da Turchia, Libano e Giordania. Il rientro è frenato dal timore di diventare “rifugiati” nella propria patria. E dal persistere delle violenze settarie. “Se non ci fosse una situazione ancora difficile non ci sarebbe più nessuno in Giordania”, afferma. Da Mafraq solo poche famiglie sono rientrate in Siria. Chi rimane, come Abu Adballah e i suoi parenti, vive in un “purgatorio” di indecisione.
Da dicembre è stato infatti estinto lo status di rifugiato per i siriani in Giordania. Questo ha compromesso la garanzia degli aiuti umanitari – su cui hanno inficiato anche i tagli dei finanziamenti USA – da cui dipende per sopravvivere il 90% della comunità siriana espatriata. In Giordania, oltre il 93% delle famiglie siriane ha dichiarato di non riuscire a soddisfare i bisogni di base. “Qui non possiamo lavorare. Non abbiamo sufficienti soldi. Ma è lo stesso in Siria. Lì la mia casa è distrutta. E la mia famiglia ha nove membri: come posso pagare il viaggio? Con 500 jod (circa 621 euro, ndr) potrei raggiungere Damasco, ma poi dovrei ricostruire…”, dice. Alcuni capifamiglia sono tornati da soli per valutare se chiamare a sé la famiglia, donne e bambini. Caritas Jordan ha registrato negli ultimi mesi un aumento degli abusi verso chi rimane, a causa di questo temporaneo “abbandono”.
Lo scorso 26 febbraio il presidente siriano ad interim Ahmed al-Sharaa ha fatto visita a re Abdallah II ad Amman, per la prima volta. Durante l’incontro si è discussa la necessità di creare condizioni adeguate per il ritorno “volontario” dei rifugiati siriani. Non “forzato” – per il momento – come quello previsto invece da Libano e Turchia. Per questo la Giordania chiede maggiori sforzi collettivi, mentre i budget delle organizzazioni umanitarie sono sempre più sottostimati rispetto alle reali esigenze. Lo scorso 14 dicembre, l’indomani della caduta del regime di al-Assad, si è tenuto ad Aqaba un meeting internazionale sul futuro della Siria. In quell’occasione si è affermato il sostegno alla transizione politica guidata dalla Siria. Il comitato – composto tra gli altri da Arabia Saudita ed Egitto – ha ribadito la sua solidarietà con il popolo siriano, sottolineando il suo diritto a determinarsi il futuro. È poi seguita lo scorso 9 marzo ad Amman un’altra riunione regionale, in cui si sono ribaditi ancora una volta gli sforzi per salvaguardare sicurezza, sovranità e integrità territoriale della “nuova” Siria.
Abdel (nome di fantasia), siriano 64enne, ha incontrato l’associazione italiana Non Dalla Guerra – che supporta i progetti educativi di Caritas – ed AsiaNews al centro di al-Hashmi al-Shamali, nella periferia nord-est di Amman. Viene da Dar’a, dove era medico; è in Giordania dal 2012, con la moglie e sei dei suoi otto figli. “Siamo venuti a piedi, abbiamo attraversato il deserto fino al confine. L’esercito giordano ci ha accolto. Ci hanno dato una tenda, pane ed elettricità… cose che non c’erano in Siria. Non avevamo mangiato per giorni”, racconta. Anche lui, come Abu Hassan, spiega che la situazione odierna delle persone siriane in Giordania è molto incerta. “Qui non lavoriamo, la vita è difficile, sentiamo un buco nel cuore per aver lasciato le persone che amiamo. Ma ora non vogliamo tornare, in Siria non troveremmo nulla”, aggiunge.
Gli aggiornamenti che riceve dai due figli che vivono in Siria non sono rincuoranti. “La mia casa è distrutta, saccheggiata, deserta. Non ci sono soldi, l’economia non è buona. I lavori che avevamo ora non ci sono. I soldi e l’oro che possedevamo sono spariti”, spiega. La paura di incontrare chi ha collaborato con il regime di al-Assad è ancora diffusa, e l’instabilità sociale non permette di sentirsi al sicuro, e di guardare al futuro con serenità. “Di notte ci sono spari, persone che litigano”, gli dicono i figli. “Per questo abbiamo paura di tornare. Se il nuovo governo riesce a controllare tutti i territori, allora ci penseremo”. Le morti per mano del regime che non hanno avuto giustizia alimentano poi il sospetto che dietro ci sia qualche persona vicina. “Ci vuole ancora molto…”, dice Abdel, che ancora sogna un visto per andare “ovunque” in Germania, Olanda o Canada, dopo numerosi tentativi finiti nell’acqua e false promesse. Quella della Siria è una “guarigione” lenta di cui forse i suoi figli beneficeranno completamente.
LA “PORTA D’ORIENTE” È LA NEWSLETTER DI ASIANEWS DEDICATA AL MEDIO ORIENTE
VUOI RICEVERLA OGNI MARTEDI’ SULLA TUA MAIL? ISCRIVITI ALLA NEWSLETTER A QUESTO LINK
Fonte : Asia