Culle vuote e cervelli in fuga: costretti a lavorare per sempre dove le città spariscono

Immaginate se una città come Belluno o Aosta scomparisse ogni anno nel silenzio generale. Il tanto citato “inverno demografico” italiano assomiglia a un albero che si spoglia lentamente: ogni foglia mancante è un pezzo della nostra identità che si perde. Nel corso del 2024 la popolazione italiana è diminuita di circa 37mila abitanti. La dinamica? È abbastanza nota. Il numero medio di figli per donna è sceso a 1,18, il numero delle nuove nascite a 370mila, il minimo storico. A ciò si aggiunge l’aumento della migrazione dei nostri connazionali, soprattutto giovani, verso l’estero, mentre l’arrivo di nuovi stranieri non riesce a frenare il calo della popolazione che prosegue ininterrottamente dal 2014. E che crea, specie nel Mezzogiorno, un vero e proprio rischio “desertificazione”. 

Quali sono le province a rischio “desertificazione”

L’allarme è soprattutto per i giovani. Dal 2014 a oggi mancano all’appello in Italia oltre 747mila cittadini di età compresa tra 15 e 34 anni. Un fenomeno che potrebbe essere anche sottostimato (anche a causa delle mancate cancellazioni di residenza) e che si abbatte soprattutto nel Sud e nelle aree meno sviluppate d’Italia. 

Le uniche province a far registrare un trend positivo sono quelle più industrializzate. In particolare in provincia di Milano e Bologna, i giovani sono aumentati rispettivamente del 10 e dell’11,5% rispetto a dieci anni fa, anche per la capacità di attrarre le nuove generazioni. Ma l’incremento è limitato solo a poche province del Nord, con le dovute eccezioni. In Veneto, ad esempio, la provincia di Rovigo vede una flessione del 12 percento, mentre è al Sud e al Centro che si registrano i cali maggiori. 

Stipendi da 100mila euro: quanto guadagnano all’estero i lavoratori che in Italia sono “introvabili”

In particolare il numero di giovani diminuisce drammaticamente nel Sud Sardegna, dove si registrano quasi 20mila giovani in meno rispetto a 10 anni fa (-25%), oppure a Isernia dove il calo è superiore al 20%.

Complessivamente se si guarda alla Calabria in dieci anni sono stati “persi” circa 90mila giovani, in Campania e in Sicilia oltre 183mila. E le conseguenze rischiano di essere pesanti. 

Sanità e Pil: qual è il prezzo del calo demografico

La prima emergenza è economica. Meno giovani significa meno forza lavoro e, di conseguenza, meno attività produttive e prodotto interno lordo. Se il declino demografico dovesse continuare con lo stesso ritmo attuale si assisterà, entro il 2040, a circa 5,4 milioni di lavoratori in meno, malgrado l’afflusso di stranieri. Tutto ciò si tradurrebbe, secondo Bankitalia, in un calo di 13 punti di Pil. Un trend che si inserisce in un quadro già critico per il nostro Paese, caratterizzato da un alto livello di “fuga dei cervelli” verso l’estero e da un basso livello di istruzione. 

In Italia la popolazione sotto i 50 anni è già oggi, in termini percentuali, inferiore rispetto a quella dei maggiori paesi europei. Il dato si ribalta a partire dagli over 50: in questo caso la nostra media è superiore a quella europea. Merito della combinazione di bassa natalità e alta longevità, che sta già mandando in tilt il sistema sanitario nazionale. 

“C’è tanto ottimismo sul fatto che l’Italia sia uno dei paesi più longevi al mondo – osserva Mara Rita Testa, professoressa di demografia presso l’università Luiss di Roma – ma il punto è: quanti arrivano a 90 o addirittura a 100 anni in buona salute?”.

La domanda non è retorica, perché un Paese con un alto numero di anziani ha bisogno di ridisegnare e finanziare massicciamente la propria sanità. Secondo l’ultimo rapporto Istat disponibile, circa il 52 per cento degli ultra 65enni presenta almeno tre malattie croniche, mentre gli anziani non autosufficienti sono oggi quasi 4 milioni. 

E anche il Pnrr si sta trasformando in un’occasione persa. Secondo l’ultimo monitoraggio di Agenas, appena un quarto delle oltre 1700 case della comunità programmate ha almeno un servizio attivo e quasi ovunque c’è una drammatica carenza di infermieri e medici. Il sistema continua a reggersi quindi sulle spalle di ospedali sempre più oberati e medici di famiglia che scarseggiano. Con il fenomeno della lunghezza delle liste di attesa e della mancata assistenza che rischia di aggravarsi all’aumentare della popolazione anziana.

Secondo le stime Istat, già nel 2040 gli italiani con almeno 65 anni saranno il 32,8% della popolazione, a fronte del 24,3% attuale, con la necessità di cure e assistenza che tenderanno ad aumentare significativamente. 

In pensione a 70 anni con pensioni da fame 

“Non c’è nessuna riforma previdenziale che tiene nel medio-lungo periodo con i numeri della natalità che abbiamo oggi in questo Paese” aveva dichiarato nel 2023 il ministro dell’Economia Giancarlo Giorgetti. 

Stipendi bassi poi pensioni da fame: così molti rischiano di versare contributi inutilmente

L’Italia è oggi tra i paesi che spendono di più in Europa per le pensioni (anche se, a differenza di quanto avviene per altri Paesi, da noi alle spese per le pensioni sono accollate varie prestazioni di natura assistenziale). Il sistema è stato messo in “sicurezza” dalla riforma Dini del 1995, che istituiva il passaggio dal sistema retributivo a quello contributivo, e dall’adeguamento dell’età pensionabile alle aspettative di vita. Secondo l’Istat nel 2050 per andare in pensione serviranno quasi 70 anni, mentre il governo ha recentemente bloccato temporaneamente l’aumento dell’età pensionabile. 

Il sistema pensionistico italiano è, come la stragrande maggioranza dei sistemi previdenziali obbligatori, a “ripartizione”. Ciò significa che i soldi versati dai lavoratori attuali vengono al momento utilizzati per finanziare le pensioni di chi si è già ritirato dal lavoro.

Si fonda sostanzialmente su un “patto generazionale” che diventa critico se le prestazioni superano i contributi versati. Un rischio che si fa concreto in caso di squilibrio demografico. E anche se, sul lungo periodo, il sistema tende comunque all’equilibrio proprio per le riforme citate sopra, resta il problema delle pensioni future di molti lavoratori che rischiano di percepire veri e propri importi da fame. 

Un’occupazione “anziana” che non fa crescere il Paese 

I primi effetti dell’inverno demografico, e delle riforme pensionistiche, si vedono già in un mercato del lavoro caratterizzato da un’occupazione giovanile scarsa e da molti lavoratori “over 50”. Una dinamica che influisce, insieme ad altre variabili, su uno dei grandi talloni d’Achille della nostra economia. “Ci troviamo oggi in una congiuntura delicata in cui la digitalizzazione sta cambiando molti processi produttivi. Il segnale più critico della nostra crisi è dato dalla scarsa produttività del lavoro: senza innovazione non c’è crescita” osserva la professoressa Maria Rita Testa. La produttività del lavoro è stagnante da 30 anni in Italia, con una conseguenza: si creano posti di lavoro a scarso valore aggiunto, spesso pagati molto poco. 

Per invertire questa dinamica, anche l’ingresso e la regolarizzazione di molti migranti, pur se fondamentale nel tamponare la decrescita demografica, rischia di non essere risolutiva: “Si sono fatti passi in avanti sull’integrazione, il problema è che oggi molti stranieri sono complementari agli italiani, ovvero sono sovrarappresentati in tutte quelle professioni che i nostri connazionali non vogliono più svolgere. Bisogna investire su istruzione e ricerca e tornare a essere attrattivi per dare opportunità a tutti, italiani e stranieri. Ora siamo in un circolo vizioso” osserva la professoressa Maria Rita Testa. La popolazione straniera è attualmente di oltre 5 milioni di cittadini, e nel 2024 è aumentata di altri 166mila persone. La quota di laureati, nei giovani tra i 25 e i 34 anni, però è pari ad appena il 12,7% tra gli stranieri residenti. 

A migliaia in fuga dall’Italia, come negli anni ’50: vi racconto la nuova vita degli “expat”

“La demografia ha un’elevata dose di inerzia, cioè quello che viviamo oggi è stato scritto nella struttura per età della popolazione italiana oggi dalle dinamiche passate. Più che sull’andamento demografico ha senso intervenire su misure concrete”. Ad esempio sull’occupazione femminile, oggi tra le più basse d’Europa, sull’istruzione e sulla valorizzazione dei giovani, sulla piena integrazione dei nuovi italiani e nel rendere il sistema economico e produttivo più attrattivo. Riforme a lunga scadenza insomma che, nel tempo della politica social e dei bonus a uso elettorale, assomigliano sempre di più a una vera e propria utopia. 

Fonte : Today