Nell’ambito delle iniziative della Design Week milanese, quest’anno c’è anche un momento per Steve Jobs. Domenica 6 aprile, la Triennale ha infatti ospitato la prima proiezione italiana di The Objects of Our Life, un documento audiovisivo raro e prezioso che raccoglie filmati inediti dell’intervento del fondatore di Apple all’International Design Conference di Aspen, nel 1983. L’evento è stato realizzato in collaborazione con lo Steve Jobs Archive, e al talk successivo hanno partecipato Leslie Berlin, direttrice e fondatrice dell’Archivio, la consulente Sarah Douglas, insieme con Stefano Boeri, Presidente di Triennale Milano, Marco Sammicheli, Direttore del Museo del Design Italiano, Deyan Sudjic, scrittore, curatore e divulgatore. Quella di Milano è la prima presentazione pubblica dello Steve Jobs Archive, che dalla creazione nel 2022 ha continuato ad accumulare materiali online e pubblicato un libro, Make Something Wonderful.
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Una mattina ad Aspen
Sotto un grande tendone disegnato da Eero Saarinen, un 28enne Steve Jobs si prepara a tenere il suo primo discorso pubblico davanti a un pubblico di designer. Il tema della conferenza è “The Future Isn’t What It Used to Be”, e Jobs è lì per parlare di computer. Siamo nel giugno 1983: la sera precedente, il fondatore di Apple ha presentato il Lisa, uno dei primi computer con interfaccia grafica e mouse, in grado di sostituire i comandi testuali con un’interazione visiva: clic, menu, icone. Un’esperienza rivoluzionaria, ma ancora lontana dalla quotidianità del pubblico presente, abituato a lavorare con carta, matite, colla e righelli. Jobs lo capisce subito: “Quanti di voi hanno mai usato un computer?”, chiede al pubblico di Aspen. Poche mani si alzano. Sorride, si rimbocca le maniche.
Il design come linguaggio
Il cuore del suo intervento è un messaggio che ancora oggi conserva una forza straordinaria: la tecnologia ha bisogno del design per diventare umana. Jobs è preoccupato per l’estetica dozzinale dei PC dell’epoca, in particolare quelli IBM. “Venderemo milioni di computer, che sembrino spazzatura o che siano belli”, afferma. “Non costa di più fare qualcosa di bello”. Il design non è decorazione, ma comunicazione, identità, emozione. Il rischio, spiega, è che anche il computer diventi “un altro oggetto brutto” e che l’industria americana, come già accaduto con automobili, televisori o fotocamere, perda terreno rispetto alla concorrenza internazionale. Ma il momento è unico: i computer e la società sono, come dice lui stesso intrecciando le dita, “al primo appuntamento”. Una metafora che anticipa l’intimità con cui oggi viviamo la tecnologia.
La formazione di un’estetica
Jobs aveva già intrapreso da anni un personale percorso di immersione nel design: ammirava i prodotti Sony, le lampade Tiffany, i furgoni Volkswagen, i vestiti di Issey Miyake. Aveva incontrato Akio Morita in Giappone, scritto a Mario Bellini dopo la conferenza di Aspen del 1981 dedicata al design italiano, visitato Ettore Sottsass in Italia. Ad Apple aveva assunto designer come Jerry Manock e collaborato con studi come Hovey-Kelley Design, intestando ogni scelta estetica, persino le scarpe con cui si presentavano i designer agli incontri.
Il suo approccio era, come sempre, totalizzante: viveva in una casa quasi vuota, con pochi oggetti scelti con cura, e sognava di accogliere i nuovi dipendenti Apple in una “stanza dei bei oggetti” per educarne il gusto. “Esporsi alle migliori cose mai create dall’umanità – diceva – e portarle nel proprio lavoro”. Per Jobs, il design non è decorazione, ma un processo che rivela l’essenza delle cose.
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Un’idea di futuro
Così, sul palco, Jobs descrive il futuro con sorprendente lucidità. Immagina computer portatili dotati di “radio link” (una prefigurazione del Wi-Fi), software in grado di rispondere a domande complesse, anticipando l’intelligenza artificiale (“Cosa avrebbe detto Aristotele?”), mappe interattive come quelle viste all’MIT. Parla di email, di interfacce visive, della possibilità di disegnare e scrivere in libertà. E ribadisce un’ambizione che diventerà la cifra di tutta la sua carriera: portare le arti liberali nei computer. Rendere le interfacce belle e intuitive non è solo una scelta estetica, ma culturale: serve ad attrarre le persone, a renderle protagoniste, a dare loro strumenti nuovi per esprimersi. “Dove dobbiamo arrivare – dice – è a un punto in cui nessuno scriverebbe più un saggio senza un computer”. La tecnologia deve diventare invisibile, naturale. Solo allora sarà davvero parte della nostra vita.
“Restituire qualcosa”
Durante la lunga sessione di domande e risposte – che dura il doppio del discorso – Jobs risponde su ogni tema: networking, privacy, grafica, assunzioni, riconoscimento vocale. E parla del senso del lavoro in Apple. “Prendiamo continuamente dagli altri: i vestiti, il cibo, la lingua, la matematica… Tutto è stato creato da altri. La possibilità di restituire qualcosa a questa esperienza umana è davvero straordinaria”. Parole che ritornano in quelle della vedova Laurene Powell Jobs alla presentazione dell’archivio: “Il progetto è nato dall’idea di Steve che, al di fuori del mondo naturale, tutto l’ambiente costruito e tutti i sistemi che governano la nostra vita sul pianeta sono stati realizzati da altri esseri umani. Una volta acquisita questa consapevolezza, si capisce che l’essere umano può modificarlo, intervenire su di esso, porlo in discussione e cambiarlo. In questo modo si realizza il progresso dell’uomo”. L’iniziativa è privata e personale, come tutte quelle che riguardano Steve Jobs, e non coinvolge Apple, anche se ovviamente non può prescindere dalla storia della più grande invenzione di Jobs. Che non fu l’iPhone, l’iPad o il Mac, ma un modo di concepire la tecnologia e il futuro.
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Fonte : Repubblica