Dove è finito il ddl nucleare? Licenziato con squilli di tromba dal Consiglio dei ministri lo scorso 28 febbraio, il disegno di legge delega in materia di energia nucleare non è ancora arrivato alla commissione Ambiente della Camera, dove si prevede inizi il suo iter parlamentare. Neanche a farla a piedi, dalla sede del ministero dell’Ambiente e della sicurezza energetica (Mase) che ne è stato promotore, a piazza di Monte Citorio occorre più di un mese per portare il plico. Allora, come spiegarsi la lentezza di trasmissione del provvedimento bandiera del ritorno all’atomo promosso dalla presidente del Consiglio, Giorgia Meloni, e dal suo governo?
Il timore del “referendum”
Ci sono almeno due ragioni, secondo quanto apprende Wired da fonti vicine alla partita. Una è politica. L’altra economica. Partiamo dalla prima. C’è un rischio, neanche troppo fantasioso, che agita i sonni atomici del governo: un nuovo referendum contro il nucleare. Se arrivasse in coda di legislatura (entrata a marzo nella sua seconda metà) e affossasse la rivoluzione energetica con cui Meloni e i suoi ministri, a cominciare da quello dell’Ambiente, Gilberto Pichetto Fratin, promettono di risolvere i problemi di bollette degli italiani (senza menzionare il fatto che i tempi non compatibili con l’urgenza di far fronte ai rincari che affliggono famiglie e aziende, ma con una pianificazione di medio e lungo termine), sarebbe un inatteso e molto funesto fuori programma all’approssimarsi delle urne. Diverso scenario è se venisse indetto dopo un Meloni bis. Ci sarebbe più tempo per maneggiare una campagna refendaria.
Per questo gli spifferi dei corridoi che Wired ha intercettato bisbigliano di funzionari che sarebbero presi a calcolare, calendario alla mano, le tappe dell’iter del ddl nucleare, che dopo l’approvazione in Consiglio dei ministri alla fine di febbraio, deve ora approdare alla Camere per il dibattito parlamentare. Dibattito che proprio Gilberto Fratin a inizio marzo si è augurato sia “ampio”. Non potrebbe essere altrimenti, data la delicatezza della materia. Ma è anche uno strumento utile per mettere al riparo il programma nucleare da consultazioni popolari che potrebbero riportare le lancette della storia al 1987.
Il governo sa di poter contare su un anno di grazia, prima delle elezioni politiche. Le norme sul referendum impediscono di depositare richieste di consultazioni dodici mesi prima dalla scadenza delle Camere. E per un referendum abrogativo servono 500mila firme o 5 Consigli regionali. Insomma, non si improvvisa. Pertanto occorre calcolare bene i tempi per l’approdo in aula e quelli del dibattito. Chissà se al governo qualcuno ha pensato di farsi prestare da Elon Musk uno dei suoi ingegneri aerospaziali per calcolare l’esatta finestra di lancio.
Fonte : Wired