Il nome di Stephen Miran, sconosciuto al grande pubblico soltanto fino a qualche giorno fa, ha iniziato a rimbalzare furiosamente sui media.
Che Donald Trump con la guerra dei dazi non miri solo a costringere i propri connazionali a comprare americano, ma punti anche a effetti sul lungo termine come la svalutazione del dollaro, imprimendo perciò nella politica commerciale statunitense una retromarcia rispetto quanto fatto dal secondo dopoguerra a oggi, iniziava a essere ormai chiaro a tutti. Come inizia a essere chiaro che l’ispiratore delle mosse del tycoon possa essere il discusso – anche aspramente criticato – economista Stephen Miran, autore di un paper il cui titolo è tutto un programma (ovvero, per alcuni, prorio il programma economico della Casa Bianca): “User’s Guide to Restructuring the Global Trading System” (Manuale per una ristrutturazione del sistema globale del commercio).
Perché si parla dell’accordo Mar-a-Lago?
Il saggio sarebbe finalizzato a un “accordo di Mar-a-Lago“, riferimento alla residenza privata di Trump nella quale oltre a portare documenti top-secret il tycoon pare prenda le decisioni realmente importanti, con lo Studio Ovale ormai ridotto a ruolo di set social per la firma degli ordini esecutivi. Si tratterebbe di una riedizione dell’Accordo del Plaza del 1985: intesa che gli americani guidati da Ronald Reagan firmarono con le potenze industriali dell’epoca (dal Regno Unito fino al Giappone passando per Francia e Germania Ovest, ovvero il G5) per attuare una svalutazione coordinata del dollaro.
Stephen Miran ha dettagliato il proprio programma lo scorso novembre, quando ancora lavorava per la società di investimento Hudson Bay Capital: subito dopo è stato chiamato dal presidente degli Stati Uniti a guidare il suo Consiglio di consulenti economici. Se anche secondo le teorie matematiche di Miran 1+1 è uguale a due, questo fa del suo saggio il plot che la Casa Bianca intenderebbe pedissequamente seguire per dare un nuovo ordine al commercio globale.
Chi è Stephen Miran
Quarantunenne, cursus honorum studentesco di tutto rispetto (prima laurea a Boston, quindi dottorato ad Hardvard) e vecchia conoscenza del tycoon (è stato advisor del dipartimento del Tesoro durante il primo mandato di Trump), è fermamente convinto che l’export americano possa tornare a correre solo se prima si darà una scossa alla valutazione del dollaro, indebolendolo. Le politiche tenute nel Dopoguerra dagli Usa hanno portato il biglietto verde a essere un punto di riferimento per l’economia mondiale, con molti paesi che custodiscono gelosamente in cassaforte dollari e titoli di Stato americani per garantirsi un bene rifugio sicuro, vista la fiducia incrollabile verso la capacità americana di saldare i propri debiti. Ma questo per Miran e accoliti provocherebbe un eccesso di domanda di dollari che finirebbe per determinare l’annosa questione del deficit commerciale. Un dollaro troppo forte è uno svantaggio per la manifattura americana a partire dalla Rust Belt, la regione compresa tra i monti Appalachi settentrionali e i Grandi Laghi, un tempo cuore dell’industria pesante statunitense, ma oggigiorno più arrugginita che mai. Insomma, il ruolo che Washington ha faticosamente guadagnato diffondendo il dollaro ai quattro angoli del globo oggi starebbe zavorrando la propria economia, a beneficio dei paesi partner ma a discapito della propria spinta propulsiva.
Le due leve (anzi, clave) in mano a Trump: dazi e difesa
Si comprende perciò perché la guerra dei dazi di Trump, tenendo in filigrana le teorie di Stephen Miran, potrebbe avere conseguenze assai più serie e profonde di quelle inizialmente ipotizzate. Non solo un’arma da brandire e con la quale ricattare i partner commerciali, a iniziare dai due vicini di casa a nord e a sud degli Usa – Canada e Messico –, ma un grimaldello per scardinare l’attuale ordine economico mondiale che, appunto, fa perno sulla tenuta del dollaro, benchmark di riferimento per tutti. Questo naturalmente non vuol dire che i dazi (e parallelamente le minacce di uscire dalla Nato) non siano anche una clava: il progetto americano in tal caso sarebbe sfruttarli per spingere – con le cattive – i creditori a scambiare i titoli di Stato americani, detenuti dalle loro Banche centrali, con obbligazioni senza cedola e dalla scadenza anche secolare (century bonds) con rendimenti perciò assai poco appetibili, magari persino respingenti. Qui appunto andrebbe in scena un nuovo accordo di Mar-a-Lago, 40 anni dopo, questa volta anche con la Cina al tavolo. E, chissà, anche tutti i paesi emergenti.
Chi critica le teorie economiche di Stephen Miran
Sono numerose le incognite e altrettante le critiche che aleggiano sulle teorie di Stephen Miran. La più scontata arriva da MarketWatch, secondo cui ” costringere i partner statunitensi a un accordo che avvantaggia principalmente Washington e l’economia americana potrebbe indurli ad accelerare la ricerca di un sostituto del dollaro “. Altrettanto scontato è il rischio di far risalire l’inflazione (che però lo stesso Joe Biden, attraverso l’Inflation Reduction Act, ha contrastato anche con forti politiche protezionistiche per spingere le multinazionali a impiantare la propria filiera di valore negli Stati Uniti). E poi pesano come macigni i giudizi sferzanti del Nobel Paul Krugman, secondo cui l’intera teoria sarebbe troppo semplicistica e, soprattutto, americanocentrica. Non terrebbe in considerazione anche le risposte degli ex partner commerciali: ”Non vedo alcuna possibilità concreta di nulla se non di rappresagalie occhio per occhio“, ha sentenziato laconicamente lo studioso. Col rischio che siano i dazi ad apprezzare ulteriormente il dollaro. Finora i detrattori di Trump descrivevano il tycoon come un novello apprendista stregone intento a procedere casualmente in ambito commerciale. Adesso che si inizia a intravedere un copione alla base delle sue mosse è comunque difficile dirsi tranquilli.
Fonte : Wired