Come quando, nel 1974, camminò a piedi da Monaco a Parigi per recarsi da un’amica, la critica, storica e studiosa del cinema tedesco, Lotte Eisner. E ne scrisse un diario, Sentieri nel ghiaccio che ne racconta la storia, la peregrinazione: “Presi una giacca, una bussola, una sacca con dentro lo stretto necessario. I miei stivali erano così nuovi e così solidi che si poteva contare su di loro. Presi la strada più diretta per Parigi, nell’assoluta fiducia che lei sarebbe rimasta in vita, se io fossi arrivato a piedi. A parte questo, volevo essere solo con me stesso”.
Werner Herzog ha fatto cinema con il corpo, con la febbre, con l’ossessione, con la fame. Il suo cinema nasce da un bisogno feroce, e per questo non consola, non intrattiene. “Fare film è come creare un’apertura, accompagnare qualcuno ad attraversarla, il regista come un fratello maggiore. È una sensazione rara da provare al cinema, ma è possibile. Quello che io tento di trovare nel mio cinema sono questi momenti, a cui probabilmente sono andato vicino senza accorgermene”.
Il suo cinema è un continente a parte, inclassificabile, tellurico, che si muove sotto la superficie. Un autore fuori dal tempo, fuori da ogni forma; è cinema nella sua foggia più inquieta, più verticale, che abita la soglia, che indugia nell’abisso, un cinema come esperienza-limite, un ariete metafisico che rompe le convenzioni. Per questo il Leone d’Oro alla carriera a Werner Herzog è un tributo che ha un senso profondo. Herzog ha consegnato alla storia del cinema un corpus di film maestosi e ineguagliabili, che fotografa posti remoti, incontaminati e individui alla deriva, distrutti, ribelli, erranti, emarginati sempre con uno sguardo lirico che investiga lo straordinario nell’ordinario, mondi dentro mondi.
Fonte : Wired