La vita da grandi, il film di Greta Scarano e il racconto del punto di vista dei siblings

È arrivata nelle sale cinematografiche una particolarissima opera prima che tratta dell’autismo, ma coinvolgendo nel suo discorso una figura spesso sottratta nelle equazioni, quella del siblings. Parliamo de La vita da grandi, l’esordio alla regia di Greta Scarano, tratto dal libro autobiografico dei fratelli Damiano e Margherita Tercon, Mia sorella mi rompe le balle. Una storia di autismo normale, con protagonisti Matilda De Angelis e Yuri Tuci.

Oltre alla pregevole fattura registica, la puntuale traduzione dello scritto e la bravura dei due interpreti, la straordinarietà della pellicola sta nella restituzione di una situazione familiare molto comune, anche se non rientra facilmente nella considerazione generale, come quella in cui c’è la presenza di una disabilità. L’innesco della pellicola parte da una richiesta di sconvolgimento dei ruoli familiari (alla sorella viene domandato di provvedere al fratello con autismo riempiendo il vuoto della madre) e l’intero intreccio si basa sulla necessità di creare tra i protagonisti un rapporto funzionale, quindi uno in cui ognuno può trovare uno spazio per muoversi. Il focus che muove la pellicola è mantenere il punto di vista della sorella “sibling”, ma lo sguardo è sempre sulla necessità di costruire con l’altro, sia in senso lato che, nella fattispecie, quando l’altro è un fratello.

L’importanza di essere siblings

Per siblings si intendono tutti i fratelli e le sorelle di bambini con disabilità. Si tratta di un termine inglese entrato nella letteratura psicologica solamente negli anni ’90, introdotto da associazioni che hanno cominciato ad occuparsi di questa particolarissima categoria di individui, “invisibili” fino a quel momento. Tra i motivi ipotizzabili di questa poca curanza può esserci quello legato alla natura ibrida di questi soggetti rispetto al caregiver oppure ad una sottovalutazione generale della relazione tra fratelli. Relazione che invece, tra tutti quelle possibili all’interno del contesto famigliare, è la più lunga e potenzialmente la più importante. Eugenia Scabini e Vittorio Cigoli nel libro “Il famigliare. Legami, simboli e transizioni” hanno giustamente associato il legame fraterno ad un “vincolo”, nella misura in cui i fratelli condividono la medesima generazione e ruolo di fronte ai parenti, così come il contesto sociale di crescita. Non solo, l’avere un fratello o una sorella rappresenta una possibilità di apprendimento e una palestra sociale impareggiabili, possibilmente anche facilitanti per le condotte di cooperazione e rispetto delle norme sociali.

Vien da sé che essere fratello o sorella di una persona con disabilità è un’esperienza a dir poco determinante per la formazione personale. Nel già delicato rapporto tra un sibling e il fratello o una sorella disabile, infatti, alcuni elementi tipici vengono condizionati, per non dire sconvolti. Elementi tipici come la reciprocità (soprattutto per quanto riguarda conflitto e identificazione) e il rapporto con le figure genitoriali. Diventa quindi fondamentale porre un focus sulla condizione di queste figure, specialmente nei momenti più importanti dello sviluppo psicologico ed emotivo. Il problema dei siblings è proprio quello di non riuscire a trovare una collocazione all’interno della propria famiglia, fattore che potrebbe portare enormi difficoltà anche nel mondo esterno.

Alcune ricerche si sono concentrate sulle conseguenze dello sconvolgimento dei ruoli familiari, il cui ordine e riconoscimento è invece fondamentale nel costruire una scala dei valori adatta a creare un equilibrio abbastanza forte da sorreggere le incongruenze e gli stress dello sviluppo, oltre che la formazione delle personalità. I genitori in questo non sono solo garanti, anzi, forse sono soprattutto arbitri emotivi. Quando questo ordine salta in un contesto in cui c’è la presenza di una disabilità le conseguenze più immediate e facilmente verificabili sono che al sibling venga chiesto di sostituirsi al caregiver oppure di farne completamente a meno, mettendo in ogni caso da parte le proprie necessità. Di per sé la disabilità non è mai una condizione che si riflette solo sulla persona e all’interno del nucleo familiare può capitare che vengano attivati meccanismi di difesa malsani come il totale rifiuto o, al contrario, il completo asservimento alla diagnosi da parte della figura genitoriale. Essa finisce così con il non tenere conto delle circostanze che tale atteggiamento impone al sibling, il quale, in ogni caso, si ritrova ad essere poco considerato.

Fonte : Wired