Atelier è il nuovo viaggio di Remo Anzovino tra le mille possibilità espressive e stilistiche del pianoforte, in cui si fondono colori, timbri e registri musicali differenti. Una vera e propria festa registrata con il pubblico, in alcuni casi mantenendone gli applausi. Compongono Atelier, l’inedito (una pagina composta circa vent’anni fa per la sonorizzazione dal vivo del capolavoro di Charlie Chaplin Il circo e pubblicata per la prima volta chiudendo un cerchio temporale e artistico) e venti brani scelti tra i suoi lavori più rappresentativi e quelli più amati dal pubblico, ricomposti dal vivo e dunque rinati in nuove e originali versioni.
Remo non possiamo che aprire il tuo Atelier con la tua Hallelujah.
E’ un inno che non ho scritto per le perfezioni dell’Altissimo. E’ una lode ai nostri fallimenti, alle imperfezioni, ai tradimenti, ai dubbi, a ciò che di più sacro conosco nell’esistenza.
In cosa ti senti imperfetto?
Non so godermi le cose che costruisco, sono eternamente nel suono successivo, è una vita in devozione della musica, mi dà fastidio che la vita non sia infinita per esplorarne le infinte sfaccettature attraverso le infinite possibilità del suono.
E col tempo invece che rapporto hai?
Una volta Enzo Gragnaniello mi disse che sono una persona senza età, che sono la reincarnazione di un musicista del passato, lì per lì mi misi a ridere poi amando le sue poesie e l’afflato spirituale delle sue canzoni che parlano del senso dell’invisibile ho capito l’essenza di quella frase.
C’è un’epoca nella quale avresti voluto vivere?
Se dovessi scegliere un periodo della musica ti dico la metà della Settecento quando c’è stato il grande cambio con l’avvento del classicismo, la semplificazione della musica e poi Mozart il primo vero grande autore Pop che prende il ginepraio labirintico del barocco e lo fa diventare qualcosa di tutti. Mozart fa la musica per tutti e io mi sarei trovato a mio agio nel periodo del teatro musicale quando non esisteva la figura del direttore d’orchestra, tanto è vero che oggi quando mi è possibile dirigo dal pianoforte, cosa tipica del Settecento. Come periodo storico in senso più ampio avrei voluto vivere da contemporaneo il primo disco dei Beatles, essere giovane negli anni Sessanta e nella prima metà dei Settanta. In generale mi sarebbe piaciuto essere nell’epoca di Galileo Galilei, vederlo quando osservava le stelle.
Oggi tu e io siamo a Bologna, città dove hai studiato. Una tua composizione si intitola L’Immagine Ritrovata: che ricordi ha ritrovato sotto i portici, per dirla con Francesco Guccini, di Mamma Bologna?
Qui ho vissuto quattro anni e mezzo, il periodo dell’Università e i primi sei mesi da avvocato. Passeggiando mentre ti aspettavo mi sono trovato a parlare ad alta voce da solo, ho pensato a quel senso di scoperta e di libertà, a quel ragazzo di provincia che esce di casa e non ha ancora la responsabilità della vita ed è lontano dai genitori. A Bologna ho conosciuto perone che arrivavano da ovunque, una “esperienza di quella vita ignota” per dirla con Pier Paolo Pasolini. Mi sono detto ad alta voce che gli anni passano e mi rivedevo a comprare dischi, a osservare dove viveva Lucio Dalla, al libretto col 30 lode in Diritto Penale, alle prime volte che tiravo le 4 del mattino, tutte situazioni di una vita a me ignota. Odio la nostalgia perché la trovo profondamente negativa ma riconosco la ho descritta bene in certe musiche e lì ci sono quelle sensazioni che ti fanno andare indietro.
Prima hai citato Galilei, cui hai dedicato una composizione.
La scrissi perché credo che la sua storia sia di grande umanità, per la paura del rogo abiura nel processo le sue scoperte e dice di essersi sbagliato pur avendo le prove dell’esattezza del sistema copernicano. Nella vita almeno una volta succede di avere le prove che un desiderio si poteva realizzare ma per paura, nonostante le prove, abiuri i sogni.
Ti consideri un artista eretico?
Non mi interessano le mode, mi interessa osservare il mondo che cambia, sentire me stesso cambiare ed esprimere questo. Da dentro col suono descrivo il mio tempo. Mi sento un osservatore che va oltre le mode e l’ovvio, usando un tipo di suono contemporaneo ma anche universale. Mi sono accorto che in ogni luogo i miei concerti muovevano la stessa reazione davanti a gente che ama e prega diversamente. E’ la musica della vita segreta delle persone, dei cassetti chiusi.
Tabù, album del 2008, è per me il tuo progetto spartiacque: che effetto ti ha fatto rimetterci mano?
E’ l’album per cui ho potuto fare i dischi dopo. Ho iniziato la mia relazione con la musica musicando Nanuk l’Eschimese perché chi doveva farlo, Marco dal Pane, era malato, sarò stato la quinta scelta. Ho accompagnato quei ghiacci polari con una musica calda, quella famiglia era in simbiosi con la natura che aveva attorno e solo per contrasto avrei potuto fare emergere quella atmosfera. In tre, quattro anni musicai una trentina film, tutti capolavori, è stata la grammatica di base che mi ha allenato alle immagini in movimento. Gli sarò grato per sempre. La composizione Tabù non fu un successo casuale, dentro ci ho messo un tango cubano con una strofa che riecheggiava le fantasie di Chopin e la fisarmonica che rappresentava la melodia italiana. Ho buonissimo rapporto con i miei pezzi vecchi, non lo ho riscritto, vado avanti perché sono un compositore. Forse oggi non saprei riscriverlo. Tabù e Nocturne sono i miei due progetti della svolta. Invece Don’ Forget To Fly come narrazione lo considero il più coerente dei mie dischi.
Come strutturi la scaletta dei tuoi concerti?
E’ stato utile l’apporto di Luca Bernini che si è aggiunto al management di Vigna PR ed è anche consulente artistico. Lui conosceva le mie colonne sonore, un po’ meno i primi dischi. Fece una scaletta sui provini. La scaletta rappresenta i periodi di scrittura, i primi otto pezzi sono della fase 2004/2015, poi ne arrivano sette dedicati alle colonne sonore dell’arte, quindi c’è Nocturne con la sua scorrevolezza cangiante. Ci sono il piano solo di Tabù e L’Immagine Ritrovata, pezzo che Simone Cristicchi volle per il suo documentario Dall’altra parte del cancello: per Simone è un brano talismano. Nei miei live ci sono una spiritualità e una spontaneità melodica che non ho mia perso. Mi emoziono a suonare brani che non suonavo da 20 anni: Chaplin che è l’inedito, lo suono con le caratteristiche di 20 anni fa, quando è nato. A casa ho quaderni su quaderni con appunti e c’erano tanti spunti sui cui lavorare.
Nella tua estate che accadrà?
Porterò in giro la parte estiva di Atelier, poi ci sarà un po’ di estero, forse Copenaghen, e poi Giappone e America. Il 2025 è per Atelier. Ci sono le mie musiche per il film I Colori della Tempesta presentato al Bif&st di Bari che andrà in sala. E un paio di allestimenti teatrali, progetti già pensati per 2026 e il 2027.
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