Femminicidio, siamo ancora fermi ad una narrazione sbagliata

Non si muore perché si rivendica troppa indipendenza, come ci è capitato di leggere sui giornali in queste ore. Troppa indipendenza per chi? E, soprattutto, dipendenza da chi?

E l’amore non è, e non può mai essere, un movente (e quindi anche una giustificazione) per commettere un femminicidio. Dobbiamo imparare a riconoscere questo tipo di narrazione e soprattutto contrastarla perché veicola un concetto molto chiaro e pericoloso che ha attraversato l’intera storia delle donne: ovvero quello secondo cui le donne valgono meno, e se valgono meno è perché sono subordinate alla soggettività maschile. Se la violenza agisce, fino alla sua massima manifestazione che è la morte, è perché ci troviamo davanti a un processo di deumanizzazione, secondo cui disporre della vita delle donne significa di fatto negare loro il diritto di esistenza ma significa anche, cosa di cui ci dovremmo occupare urgentemente, pensare di avere il potere per farlo. E questo pensiero è sempre ricorrente nella volontà di un femminicida.

L’educazione sentimentale e le domande che non andrebbero fatte

Esiste anche un’altra questione profondamente sbagliata e che ciclicamente si ripropone all’alba successiva di un nuovo femminicidio e consiste nella vittimizzazione secondaria della vittima. Non dovremmo mai cadere nell’errore di giudicare la capacità delle donne di riconoscere i segnali per tempo o la possibilità di denunciare o no, eppure è frequente leggere la domanda retorica: perché non ha denunciato prima?

Se le donne non denunciano è perché sono immerse nella stessa identica cultura che impedisce all’intera società di riconoscere la misoginia e la violenza.

Ci troviamo davanti a un fenomeno incredibile di persone adulte che, con estrema facilità, puntano il dito contro le donne che non denunciano a tragedia avvenuta ma, prima, non sono capaci di interessarsi e prendersi cura delle questioni che riguardano la nostra società. Lo abbiamo visto anche con il dibattito scomposto scaturito da una serie come Adolescence, la cui vicinanza temporale e tematica con questi ultimi fatti di femminicidio è sorprendente.

Perché Adolescence non è solo una storia di femminicidio a tutti gli effetti ma è anche una storia sulla fragilità di una intera generazione di uomini di cui dobbiamo farci carico.

A tal proposito, in questi giorni abbiamo letto che l’assassino di Sara Campanella, Stefano Argentino, è un ragazzo molto giovane di 27 anni. Una precisazione: a 27 anni si dovrebbe avere già un bagaglio educativo importante che include la gestione della sfera emotiva: rabbia, dolore, rifiuto, fallimento, negazione. Imparare a gestire le emozioni negative è incluso in quella educazione sentimentale che oggi manca completamente, soprattutto nella crescita dei giovani maschi. È necessario iniziare da piccoli, dalla pre-adolescenza fino all’adolescenza. Ed è un lavoro che non può essere solitario dal momento che dipende completamente dalla struttura culturale in cui siamo immersi.

Se continuiamo a mantenere una struttura sociale misogina e violenta che promuove una certa idea di maschilità, non solo condanniamo le donne a morte certa ma condanniamo anche i giovani uomini al soffocamento delle loro identità.

Fonte : Wired