Uno speciale scanner ha indivuato ancora 70 “sagome” sotto le macerie. Dalle indagini stanno emergendo le gravi responsabilità della società cinese che stava costruendo l’edificio (su cui Pechino ha già vietato le discussioni sui social). La piaga del lavoro senza tutele di chi fugge in Thailandia dal Myanmar è da tempo denunciata dalle organizzazioni per i diritti umani.
Bangkok (AsiaNews) – Uno scanner ha rilevato 70 segni che potrebbero indicare la presenza di persone disperse tra le macerie del cantiere del grattacielo di 32 piani che avrebbe dovuto ospitare la sede dello State Audit Office crollato il 28 marzo a causa del terremoto a Bangkok. Il sensore, fornito dall’esercito degli Stati Uniti, ha rilevato questi segni tra il 17° e il 21° piano, dove la maggior parte dei dispersi stava lavorando quando è avvenuta la scossa. Non è detto che a ogni segnale corrisponda a una persona, ma è la conferma delle dimensioni della tragedia nel cantiere del China Railway No. 10 Engineering Group dove lavoravano molti operai provenienti proprio dal Myanmar.
L’edilizia è forse il settore economico in cui gli immigrati birmani sono più visibili in Thailandia. Portati sui cantieri al mattino e stipati alla sera dai camion forniti dall’azienda costruttrice che li riportano nei loro dormitori (quando non sono impiegati in turni che consentano di far sorgere edifici enormi in tempi brevi), anche nel cuore delle principali città lavorano in ogni condizione climatica per orari prolungati, con tutele spesso sotto lo standard richiesto dalla legge, per salari giornalieri anche inferiori a quello minimo ufficiale di 400 baht (poco meno di 11 euro). Basta alzare lo sguardo e sono perfettamente visibili, più di quelli impiegati nella pesca o nell’agricoltura; eppure – si potrebbe dire – fanno parte del “paesaggio urbano”, un elemento che non viene considerato dalla maggior parte dei thailandesi o dei molti stranieri che affollano le aree centrali di Bangkok e i “paradisi” sempre più edificati lungo le coste o sulle isole.
Sono stimati in poco meno di sei milioni gli immigrati regolari o non documentati presenti in Thailandia. Al milione e mezzo di cittadini del Myanmar legalmente accolti, si stima siano da aggiungere altri 1,8 milioni di irregolari. La diaspora dei birmani, in corso da decenni, è il frutto dell’intreccio tra le necessità di chi fugge dal Myanmar in cerca di maggior benessere e in molti casi anche di una via d’uscita dalla repressione, e della ricerca di manodopera produttiva, docile e a buon mercato da parte degli imprenditori thailandesi. Anche oggi, nonostante la situazione che poco induce all’ottimismo e ha prospettive negative, la Thailandia conserva una forte attrattiva a fronte della mancanza di prospettive nel confinante Myanmar.
Si tratta di una migrazione nella maggior parte dei casi di necessità che ha bisogno di vedere riconosciuto quanto indicato qualche mese fa in un rapporto congiunto di nove agenzie dell’Onu impegnate sul fronte migratorio: garanzie di trattamento equo, condizioni di impiego adeguate, rispetto dei diritti umani, possibilità di accesso alla giustizia, tutela sul piano sociale e dell’assistenza medica. Indicazioni che chiamano le autorità thailandesi a un maggiore sincerità e concretezza, in adesione agli impegni internazionale e come parte dello sviluppo sostenibile per il Paese.
Oltre che per l’evidenza in sé dell’evento, va dunque collocata in questo contesto la reazione – locale e internazionale – al crollo del grattacielo in cui sono stati travolti decine di lavoratori, in maggioranza di nazionalità birmana. Un disastro che il ministro thailandese per l’Industria, Akanat Promphan, ha detto di considerare risultato dell’utilizzo di materiali scadenti, progettazione inadeguata e cattiva esecuzione su cui dovrà far luce una inchiesta nei confronti dell’azienda che ha sovrinteso alla costruzione, la cinese China Railway No. 10 Engineering Group. Il dito è puntato in particolare contro le barre d’acciaio fornite dalla Xin Ke Yuan Steel Co, un’azienda cinese che ha una fabbrica nella provincia di Rayong che già era finita nel radar delle autorità di Bangkok per la scarsa qualità dei suoi prodotti.
Ma il drammatico fallimento del progetto – il maggiore del gruppo avviato in Thailandia – ha riaperto il dibattito sulle condizioni di lavoro degli immigrati nell’edilizia in Thailandia ma anche sugli standard qualitativi delle costruzioni cinesi all’estero. Un confronto che aveva provato a diffondersi anche sui canali dei social network di Pechino nelle primissime ore dopo il sisma, ma che Pechino ha rapidamente bloccato.
Fonte : Asia