Altri 33,3 milioni vanno alla creazione di una piattaforma digitale per le forze dell’ordine, 77 milioni di euro per progetti di collaborazione tra pubbliche amministrazioni per l’interoperabilità; 24 milioni per valutare i bandi, pagare attività di divulgazione e consulenti esterni, coprire le spese per far funzionare la macchina del Digital markets act, il pacchetto di norme a tutela dei consumatori online. E infine sono stati previsti 70,3 milioni per la protezione dei minori, la sicurezza della rete, l’Osservatorio europeo dei media digitali e la rete di fact-checking.
I rischi geopolitici
Insomma, all’Unione i soldi non mancano (anche perché molti di questi progetti viaggiano in co-finanziamento con i singoli Stati e i privati). E nemmeno le idee. La sfida è assicurarsi che le promesse degli investimenti vengano mantenute e l’Europa riesca a rafforzarsi in quei settori in cui sconta un ritardo. Per questa stessa ragione, la Commissione insiste su una linea Europe-first. Gli obiettivi del programma, si legge, “possono essere raggiunti solo tenendo conto degli interessi di sicurezza dell’Unione, in particolare nei settori della cybersicurezza e della protezione dei dati da divulgazioni non autorizzate. Questo include anche la sicurezza delle catene di approvvigionamento, delle infrastrutture critiche, dell’ordine pubblico e la protezione delle tecnologie critiche dell’Unione per evitare la fuga di tecnologie emergenti sensibili e prodotti a doppio uso verso destinazioni considerate a rischio, che attuano strategie di fusione tra ambito civile e militare”.
E ancora, “la principale preoccupazione riguarda il fatto che dati sensibili europei, collegati agli interessi di sicurezza dell’Unione, potrebbero finire nelle mani di autorità di paesi terzi (in particolare agenzie di intelligence e sicurezza nazionali) senza che gli individui, le imprese o le pubbliche amministrazioni dell’Ue interessati ne siano a conoscenza o possano intervenire per limitare l’accesso ai dati per motivi di sicurezza o per esercitare i propri diritti fondamentali. Questa situazione può derivare dall’applicazione delle legislazioni nazionali di sorveglianza dei paesi terzi, che possono imporre obblighi sui fornitori di servizi stabiliti in quei paesi che operano nell’Unione. Inoltre, la giurisdizione di tali paesi potrebbe estendersi anche alle loro filiali stabilite nell’Ue”.
Una situazione, questa, che vale anche per i grandi colossi tecnologici a stelle e strisce. Che oltre a essersi schierati in molti casi apertamente con l’amministrazione del presidente Donald Trump in contrapposizione alle regole europee, sono soggetti a norme locali già oggetto di trattative serrate tra le due sponde dell’Atlantico, come il Cloud Act, oggi più a rischio a causa dei rapporti tra Washington e Bruxelles ai minimi storici. Il problema era già emerso nei piani pluriennali di lavoro precedenti ma ora si fa più urgente. E tale rende il piano di investimenti tech della Commissione. Se basterà a recuperare il terreno perduto, lo scopriremo nei prossimi anni.
Fonte : Wired