È la prima “designer per l’accessibilità” assunta da Facebook, a livello globale. Quando è entrata nel 2018, il team era composto solo da ingegneri. Lei ha portato un’altra prospettiva: quella di rendere i social accessibili a tutti. Si chiama Caterina Falleni, ha 35 anni e da quando ne ha 22 cerca di applicare le sue competenze da designer a tematiche sociali.
Ha creato un frigorifero che non utilizza energia elettrica, destinato ai Paesi in via di sviluppo. Ha attraversato gli oceani per studiare l’inquinamento. Ha fondato una piattaforma no profit che connette designer e creativi con social entrepreneur. Ha vinto borse di studio. Ha lavorato alla Nasa. E crede nella coerenza: If you wanna speak your truth, live by your truth. Non basta dire la propria verità, bisogna anche viverla.
In Meta ha costruito da zero un team di designer che si occupano di accessibilità e inclusione, oltre a Facebook ha formato gruppi satellite per Instagram, WhatsApp, Messenger e Reality Labs. E dell’accessibilità ne ha fatta una responsabilità morale.
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«Una delle cose più importanti che ho imparato negli anni è riconoscere i nostri bias. Quando pensiamo a persone con disabilità, immaginiamo sempre una disabilità permanente: persone su una sedia a rotelle o con la Sindrome di Down. Ma in realtà ognuno di noi, almeno una volta nella vita, sperimenta una forma di disabilità, anche solo temporanea o situazionale. Quanto ti rompi un braccio o una gamba per esempio. E ancora: in California la gravidanza è considerata una disabilità temporanea. Quando ero incinta, ero ufficialmente in disability leave».
Poi ci sono disabilità situazionali. Capitano quando cammini per strade e c’è tanta luce e non riesci a leggere il display del tuo telefono. O quando ti trovi in un luogo rumoroso, in treno, su una metro, e non capisci l’audio di un video. «L’accessibilità non riguarda solo una minoranza ma riguarda tutti. E se guardi alla storia del design, trovi innovazioni meravigliose nate per pochi e servite a molti».
Sapete come sono nate le caption ? «Negli anni Cinquanta, negli Stati Uniti, quando arrivarono le prime televisioni a colori, qualcuno propose di aggiungere dei sottotitoli al programma della chef Julia Child per renderlo accessibile anche a chi non sentiva. In poco tempo si è capito che i sottotitoli non erano utili solo a loro. Oggi – ed è un dato ufficiale – il 90% delle persone che guarda video online li usa».
Un’innovazione pensata per una minoranza e diventata utile per tutti.
«Conosci la storia del Curb Cut Effect? Negli anni Sessanta, a Berkeley, un gruppo di studenti in sedia a rotelle iniziò a protestare perché non poteva attraversare la strada in autonomia: mancavano le rampe sui marciapiedi. Le costruirono da soli, smantellarono varie strade e da lì partì un movimento che cambiò le infrastrutture urbane di tutto il mondo. Ma quelle rampe non servono solo a chi ha una disabilità permanente: aiutano chi ha un passeggino, una bicicletta, un monopattino. Questo è il senso del design inclusivo: quando progetti per chi ha più difficoltà, spesso migliori la vita di tutti. E questo è un aspetto che mi ha sempre affascinata».
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Oggi Caterina lavora sui design system di Meta. Coordina un team che rivede i componenti di base — bottoni, testi, colori, interazioni — per renderli accessibili fin dall’inizio. «Sono diventata il Single Thread Owner di questa iniziativa, per allineare tutti i team che si occupano di design system all’interno dell’azienda. È un lavoro lungo, è ancora in corso. La sfida non è solo creare un prodotto accessibile. È costruire processi e sistemi che rendano l’accessibilità, una pratica quotidiana».
La storia di Caterina parte da Livorno. Sin da piccola sviluppa una sensibilità particolare verso le ingiustizie. «Osservare nel porto l’inquinamento nel mare o persone con meno opportunità di altre, mi ha spinto a cercare un modo per fare qualcosa». Studia Industrial Design all’ISIA di Firenze, una scuola che seleziona solo venticinque studenti l’anno. Fa l’Erasmus in Finlandia, poi un tirocinio a Rotterdam. La prima svolta arriva con la tesi di laurea che poi si trasforma in un progetto imprenditoriale: un frigorifero per frutta e verdura che non utilizza elettricità, pensato per i Paesi in via di sviluppo.
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È il 2012. Ha ventitré anni. Quel progetto le apre le porte. Vince una borsa di studio per la Singularity University, all’interno del campus della NASA, in California. È la sua prima volta in Silicon Valley. E se ne innamora. «Era un posto incredibile»
Torna in Italia per finire gli studi e inizia a lavorare. Poi arriva la chiamata di Carlo Ratti, professore al MIT, che la coinvolge su MakerShaker, spin-off del Senseable City Lab. Dopo un anno, molla tutto e riparte da sola per la California «Sentivo che c’era ancora molto da fare, da imparare. Mi sono data qualche mese per provarci…»
In quegli anni lavora in una design consultancy, poi passa a Samsung e lavora al lancio di Samsung Pay. Vince una borsa interna per sviluppare una sua startup di edutainment. Intanto alla sua porta bussano Google, Amazon e Facebook. Sceglie Facebook. «Non lo stavo nemmeno usando, anzi: stavo andando nella direzione di avere una vita più salutare senza l’utilizzo dei social media».
Da dieci anni Caterina vive e lavora a San Francisco. Eppure, ancora sente dentro di sé, quella voce che le dice: What’s next? What’s next? «Ho sempre avuto fame. Mio nonno mi chiedeva: perché fai questo? Perché parti? Volevo andare, conoscere. Ho sempre avuto apertura verso l’ignoto e l’arte dell’arrangiarmi, che è un po’ forse una cosa innata di noi italiani. Quando hai poche risorse, pensi di avere poche porte aperte davanti a te, e in qualche modo ti arrangi. E questo mi ha aiutato sempre aiutata».
Sposata con un ragazzo francese, ha due figli nati in America. Durante la maternità ha scritto un libro per bambini trilingue. Si immagina un futuro dove il suo lavoro non è più necessario. «Perché l’accessibilità e l’inclusione diventino parte naturale di qualsiasi prodotto, esperienza o sistema». E sogna di tornare in Europa e fare impresa.
«Qui, in Silicon Valley, stanno facendo passi indietro. Giganteschi. Lavoro in una big tech, ma ho la mia voce. If you wanna speak your truth, live by your truth. Mi piacerebbe creare qualcosa in Europa. In Toscana. Un luogo dove creativi, imprenditori, filosofi e pensatori possano ritrovarsi, condividere idee, immaginare e realizzare progetti che abbiano un impatto sociale.
Conosci Esalen? È un luogo quasi leggendario, nato negli anni Settanta lungo la costa del Big Sur, in California. Un centro ispirato al movimento hippie, dove tra le sue prime attività si tenevano concerti di Janis Joplin ed Eric Clapton, e dove oggi si intrecciano spiritualità, tecnologia e pensiero contemporaneo. Si affaccia sull’Oceano, tra sorgenti termali e piscine all’aperto. È un luogo “clothing optional”, dove si tengono workshop su ogni tema immaginabile: dalla pace nel mondo al design digitale.
«È un posto dove ti metti a nudo — anche metaforicamente — con creativi di ogni settore. E quando sei così esposto, in contatto con la natura e con te stesso, è impossibile pensare di costruire qualcosa che faccia del male alla società. Ecco sogno un luogo così in Toscana. Che cambi il tuo sguardo. Ti lasci una prospettiva nuova, più vera».
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Fonte : Repubblica