L’Unione Europea all’attacco delle valute virtuali nei videogiochi

Che i videogiochi siano diventati una delle industrie più floride e pervasive del nostro tempo, nonostante il periodo di crisi e di licenziamenti, non è più una notizia. Che dentro questa crescita si nascondano pratiche commerciali discutibili, invece, lo è ancora troppo poco. In questi giorni l’Europa sta tuttavia provando a mettere un argine. Il Consumer Protection Cooperation Network – una rete di autorità europee per la tutela dei consumatori – ha pubblicato un documento che stabilisce alcuni principi fondamentali per regolare l’uso delle valute virtuali nei videogiochi.

Si parla di gemme, monete d’oro o cristalli colorati e altri oggetti che vengono scambiati con denaro reale e usati per comprare spade, skin, potenziamenti o nuove vite o forzieri da aprire nei giochi mobile e non solo. Questo perché, pur essendo di fatto l’equivalente di denaro reale, la loro gestione all’interno dei giochi è tutt’altro che trasparente.

Un business da miliardi

Secondo il rapporto Global Games Market Report di Newzoo, solo nel 2024 il mercato dei videogiochi ha generato oltre 184 miliardi di dollari a livello globale. Più della metà di questa cifra arriva da giocatori mobile, ovvero da chi gioca su smartphone e tablet. E la maggior parte dei ricavi non viene dall’acquisto dei giochi, ma dalle microtransazioni: piccole spese che, sommate, muovono cifre gigantesche.

Nel corso degli anni le microtransazioni sono diventate il modo più efficiente per tenere a galla e far prosperare un gioco per anni e anni. E infatti per molti titoli ormai non si parla più di videogiochi, ma di giochi come servizi, ovvero piattaforme pensate per mantenerti al loro interno molto tempo offrendo via via una serie di opportunità di divertimento e acquisto. Vedi alla voce Fortnite, per fare l’esempio più semplice.

Ormai da anni siamo consapevoli che scaricando un gioco free-to-play, è del tutto normale ritrovarsi, volontariamente o meno, a spendere decine di euro per acquistare vite extra, skin esclusive o pass battaglia. Anche perché le meccaniche più o meno occulte per spingerti all’acquisto sono inserite all’interno dei giochi che in alcuni casi vengono chiamati “gacha”, termine che deriva dal giapponese “gashapon”, ovvero le macchinette dove metti delle monete e ricevi un personaggio collezionabile random. Il problema? Spesso non è chiaro quanto si sta spendendo davvero.

Prezzi nascosti e pacchetti ingannevoli

Il principio fondamentale richiamato dal CPC Network è semplice: se si spende denaro, diretto o mascherato sotto forma di valuta virtuale, devono valere le stesse tutele previste per ogni altro acquisto online. Tradotto: i prezzi devono essere chiari, espressi in euro, e facilmente comprensibili.

Ma la realtà dei giochi online è spesso più opaca. Giochi che usano più tipi di valute contemporaneamente, obblighi di passare da una moneta all’altra con vari scambi interni, bundle che ti costringono a comprare più del necessario per ottenere un oggetto specifico. Solo di recente alcuni titoli, come EA FC, hanno inserito in chiaro la percentuale con cui alcuni giocatori particolarmente rari sono presenti nei pacchetti di espansione di FUT. Tutte pratiche che, secondo le autorità europee, violano il diritto dei consumatori a fare scelte consapevoli.

E non è tutto. La legge europea prevede il diritto di recesso entro 14 giorni per gli acquisti digitali. Ma quanti giochi informano chiaramente i giocatori, soprattutto i più giovani, di questo diritto? E quanti lo rispettano davvero?

La parte più delicata riguarda i consumatori vulnerabili. Bambini e adolescenti sono in prima linea: non hanno ancora strumenti critici sviluppati, spesso usano account e metodi di pagamento dei genitori, e sono particolarmente esposti all’effetto psicologico delle valute virtuali, che rendono l’atto di spendere meno tangibile.

Ma c’è un altro gruppo su cui si concentra il business: le cosiddette whales, le balene, utenti che spendono centinaia, a volte migliaia di euro in un singolo gioco. In molti casi si tratta di persone con problemi di autocontrollo, di spesa compulsiva o legati al gioco d’azzardo. Costruire un modello economico attorno a questi comportamenti significa lucrare sulla vulnerabilità, e purtroppo è una strategia diffusa.

Ovviamente non è giusto fare di tutta l’erba un fascio o tirare in mezzo termini come “ludopatia” quando si parla di videogiochi. È giusto ricordare che parliamo solo di una parte di essi, una parte ampia e purtroppo molto facile da raggiungere, ma solo una parte.

Secondo il documento europeo, i videogiochi non possono più nascondersi dietro alla scusa del “sono solo giochi” e in alcuni Paesi, come il Belgio, ci sono già norme molto restrittive. Se raggiungono pubblici fragili, devono adattare le loro pratiche di conseguenza. Questo include trasparenza nei costi, limiti alle esortazioni all’acquisto, e un uso più rigido delle impostazioni di parental control.

Cosa può fare un genitore?

In un ecosistema così complesso, i genitori hanno un ruolo cruciale nel proteggere i propri figli da spese eccessive. Ecco alcuni strumenti pratici da tenere a mente:

  • Controlli parentali: tutte le principali piattaforme (iOS, Android, PlayStation, Xbox, Nintendo Switch) offrono funzioni per limitare gli acquisti, impostare un PIN per le spese o monitorare il tempo di gioco.
  • Autenticazione per ogni acquisto: su molti dispositivi è possibile chiedere che ogni spesa venga autorizzata con password o impronta digitale.
  • Carte prepagate: invece di collegare una carta di credito, si può usare una gift card con un tetto massimo di spesa.
  • Parlare apertamente: spesso la prevenzione passa anche dal dialogo. Spiegare ai ragazzi cosa sono le microtransazioni e perché possono essere insidiose è il primo passo per responsabilizzarli.

Un cambio di rotta necessario (ma non ancora definitivo)

È presto per dire se queste linee guida porteranno a un cambiamento concreto. Non sono vincolanti in senso stretto: non sono leggi, e questo significa che sviluppatori e publisher non sono obbligati a seguirle. Ma attenzione: questo non vuol dire che possano ignorarle impunemente.

Chi violerà queste linee guida sarà più esposto a cause legali, e chi deciderà di farle valere potrà contare sul supporto della Commissione Europea e del Consumer Protection Cooperation Network. È, in sostanza, un deterrente molto forte, anche se non ancora un vincolo giuridico.

In più, il CPC Network ha chiarito che monitorerà l’evoluzione del settore e si riserva di intervenire con nuove azioni se le pratiche dannose dovessero continuare.

Certo, la brutta notizia è che queste regole valgono solo per l’Unione Europea. Nel Regno Unito e negli Stati Uniti, per ora, è probabile che i veri costi delle microtransazioni restino ancora ben nascosti tra cristalli, pacchetti e valute fantasy. Ma almeno da questa parte dell’oceano, qualcosa si muove. Sarebbe senza dubbio interessante capire come cambierebbe il settore in caso di norme estremamente restrittive, anche perchè non cambierebbe solo il settore, ma anche l’orizzonte economico di tutte le aziende che con le loro piattaforme fanno da intermediarie, come Apple, Google, Sony o Microsoft.

Fonte : Repubblica