L’ex pugile assolto dopo 56 anni in prigione riceverà un risarcimento di 1,2 milioni di euro

Un risarcimento equivalente a 1.2 milioni di euro. Questa la somma che il governo giapponese ha versato nei confronti di Iwao Hakamada, l’ex pugile di 89 anni che ha trascorso 56 anni in carcere, di cui 46 nel braccio della morte, con l’accusa di aver ucciso il suo datore di lavoro, sua moglie e due dei loro figli, strage per cui è stato riconosciuto innocente lo scorso settembre.

Giappone, maxi risarcimento per Iwao Hakamada

L’importo corrisponde al massimo possibile ai sensi della legge giapponese sul risarcimento degli imputati definitivamente prosciolti, che prevede il pagamento di un indennizzo fino a 12.500 yen (77 euro) per ogni giorno di detenzione. Dopo una lunga battaglia legale condotta principalmente dalla sorella, Iwao Hakamada, ora 89enne, è stato dichiarato innocente lo scorso settembre del quadruplice omicidio per il quale era stato condannato a morte nel 1968. Ha trascorso più di cinque decenni in prigione, di cui 46 anni nel braccio della morte, prima di essere rilasciato. Nel riesaminare la sentenza, un giudice ha ritenuto che le prove contro il signor Hakamada erano state “fabbricate” e ha stabilito che gli interrogatori a cui era stato sottoposto erano “disumani” e mirati a infliggere “dolore fisico e mentale” e a ottenere “dichiarazioni sotto costrizione”. Iwao Hakamada, gravemente indebolito dalla prigionia, è il quinto condannato a morte a essere sottoposto a un nuovo processo nella storia giapponese del dopoguerra. Anche i quattro casi precedenti si sono conclusi con verdetti di innocenza. 

L’arresto e i 56 anni in prigione

La prima condanna per Iwao Hakamada è arrivata nel 1968, quando l’uomo aveva 32 anni, per l’omicidio del suo capo, della moglie dell’uomo e dei loro due figli adolescenti. I quattro furono trovati morti per ferite da taglio nella loro casa nella prefettura di Shizuoka, che poi è stata data alle fiamme. Incriminato per omicidio, rapina e incendio doloso, la sua condanna a morte era stata resa definitiva sulla base di una sentenza secondo cui tracce di sangue su cinque capi di abbigliamento trovati in una vasca di miso (pasta di soia fermentata) 14 mesi dopo l’omicidio corrispondevano ai gruppi sanguigni delle vittime e dello stesso Hakamata. Nel corso degli anni sono emersi dubbi su prove fasulle e confessioni estorte che hanno messo sotto esame il sistema giudiziario giapponese accusato di tenere “in ostaggio” i sospettati. Nel 1980 la Corte suprema aveva confermato la condanna a morte di Hakamada, ma i suoi sostenitori avevano lottato per anni chiedendo la riapertura del caso. La svolta è poi arrivata nel 2014, quando fu concesso un nuovo processo sulla base del fatto che i procuratori avrebbero potuto falsificare le prove. Da allora Hakamada ha lasciato la prigione in attesa della nuova sentenza, arrivata lo scorso settembre.

Il processo e la battaglia legale

Durante il processo, condotto davanti le telecamere, il tribunale ha stabilito che erano “state fabbricate tre prove che facevano pensare che l’imputato fosse l’autore del delitto. Escludendo questi elementi, le altre prove a suo carico non sono sufficienti per stabilire che egli sia l’autore” dei delitti, ha chiarito il giudice durante l’udienza mediatica. Ha anche definito il metodo dell’interrogatorio “disumano” perché mirava a infliggere “dolore fisico e mentale” e a “obbligarlo a rilasciare dichiarazioni”. In altre parole, il giudice del tribunale distrettuale di Shizuoka, Koshi Kunii, ha riconosciuto che tre elementi di prova erano stati fabbricati, tra cui la “confessione” di Hakamada e alcuni capi di abbigliamento che, secondo l’accusa, indossava al momento degli omicidi. All’epoca dei fatti, Hakamada aveva prima confessato di essere l’autore di questi omicidi prima di ritrattare, citando le modalità dell’interrogatorio. Tutta l’accusa si fonda su un mucchio di vestiti macchiati di sangue trovati in una vasca di miso un anno dopo gli omicidi del 1966. La difesa ha sempre sostenuto che gli investigatori hanno probabilmente piazzato i vestiti, poiché le macchie rosse su di essi erano troppo brillanti. In risposta, i pubblici ministeri hanno affermato che le prove scientifiche dimostrano che la vivacità del colore è credibile. “Una battaglia infinita”, come l’ha definita Hideko Hakamada, la sorella 91enne del detenuto. Un incubo terminato soltanto dopo 56 anni di reclusione.

Fonte : Today