Nei 97 anni di Oscar, Sugarcane è stato il primo film diretto da un nativo americano ad essere candidato. Non ce l’ha fatta a vincere come miglior documentario, ma resta comunque un’opera per cui gli aggettivi “urgente e necessario” non sono eccessivi. Prodotto non a caso da Lily Gladstone e diretto da Julian Brave Noisecat e Emily Kassier racconta un’indagine choc su una storia di cui nessuno prima d’ora ha mai parlato, il genocidio perpetrato dalla chiesa e dal governo di allora ai danni della comunità indigena.
Cinema-verità che svela una storia sconvolgente, per troppo tempo taciuta. Per «liberarsi del problema indigeno» nel 1984 il governo canadese costrinse i bambini indigeni a frequentare degli istituti gestiti per la maggioranza dalla chiesa cattolica. Istituti in cui vennero perpetrati in modo sistematico abusi indicibili e spaventosi, anche di tipo sessuale. Lo testimoniano alcuni dei “bambini indigeni cresciuti”, signori che portano negli occhi e nelle incrinature della voce testimonianza di quello strazio durato anni, abusi che coinvolsero almeno quattro generazioni (l’ultimo istituto chiuse nel ’97), tra sparizioni, violenze, gravidanze e adozioni clandestine. “Pensavano che saremmo rimasti stupidi per sempre e nessuno avrebbe mai scoperto queste cose?”.
Quello che Sugarcane – disponibile su Disney + – ricorda a chi guarda è che le minoranze sono esseri umani, con la loro dignità e i loro vissuti, con i traumi e le offese di cui occorre prendersi una responsabilità storica collettiva. Nessuno potrà mai restituire quanto è stato loro tolto, ma il rispetto e l’empatia per quanto accaduto sono il minimo che si debba loro. Scioccano le testimonianze, le immagini di archivio e le riprese di documenti in cui emerge tutto lo spirito razzista con cui ci si accaniva contro la comunità indigena: per giustificare e occultare le sparizioni dei loro bambini si incolpavano gli stessi piccoli, «selvaggi e per natura tendenti alla libertà».
Fonte : Wired