AGI – Teodoro Dibenedetto ha compiuto ieri cento anni, ma nulla ha mai potuto scolorire dalla memoria quel 16 settembre 1959, quando vide con i propri occhi la palazzina di via Canosa a Barletta cedere all’improvviso, seppellendo nel silenzio l’alba di 58 vite. Oggi è l’ultimo testimone oculare di una delle più grandi tragedie edilizie dell’Italia repubblicana. L’unico che possa ancora raccontare, con parole, appunti e silenzi, ciò che accadde davvero.
La notte della tragedia
Quella notte, Teodoro indossava la divisa nuova delle Ferrovie dello Stato. Era in servizio presso la cabina C, accanto al passaggio a livello di via Canosa. “Faceva caldo quella notte tra martedì e mercoledì – ha raccontato a “La Gazzetta del Mezzogiorno” – e una volta passati i treni, approfittavamo per prendere un po’ di refrigerio fuori dalle cabine. Era da poco passata la mezzanotte e vidi delle persone vestite a festa che ricevevano auguri. Era il signor Palmitessa con la sua giovane moglie. Si erano appena sposati e avevano dato una festa nel loro nuovo appartamento in via Canosa 7, erano felici. Anch’io gli feci gli auguri. Non potevano conoscere il loro crudele destino”.
Le note di Teodoro
Tra le carte che Teodoro conserva, c’è anche un piccolo quaderno da lavoro, dove annotò poche righe, incorniciate in rosso e sottolineate in verde: “Giorno 16. Alle ore 6.45 è crollato il palazzo di via Canosa di quattro piani. È stata una cosa orribile. Ho visto tutto il crollo. I morti sono 58 e i feriti 13″. Il crollo avvenne alle 6.42, mentre in stazione si attendeva il treno per Foggia.
Il racconto della tragedia
“In biglietteria – ha aggiunto – c’era un collega che di solito, una volta finito il turno di notte, si intratteneva con noi per qualche minuto. Non voleva rientrare troppo presto e svegliare così la sua famiglia. Abitava in quel palazzo e quel giorno decise di rientrare perché aveva sonno”. Chi invece si salvò fu un autista della ditta Marozzi: “Il deposito degli autobus era proprio sotto il palazzo crollato – ha ricordato –, lui si intrattenne con il mio collega prima del crollo e si salvò la vita”.
Il momento del crollo
Poi, il momento esatto della tragedia. “C’era un treno che partiva da Barletta per Foggia alle 6.46 – ha raccontato, commosso al cronista – mentre il mio collega parlava con l’autista Marozzi, io mi avvicinai al passaggio a livello per dare il segnale. Nell’attesa del treno guardavo il palazzo, poi all’improvviso lo vidi accasciarsi. Ci fu un boato e fu ricoperto dalla polvere”.
La memoria della tragedia
Al suo rientro a casa, ancora impolverato, la moglie Maria lo guardò perplessa. «Ma cosa è successo?», chiese. E lui rispose soltanto: “Un fatto brutto. Ho visto crollare il palazzo”. Quelle immagini impressionarono l’intera nazione. Una densa colonna di fumo si levò sopra il quartiere della ferrovia. La Stampa scrisse: “Quando la nube si diradò, il civico 7 era scomparso. Al suo posto, cumuli di macerie”.
Le responsabilità tecniche e progettuali
La perizia del Genio Civile parlò di fondamenta inesistenti, calcestruzzo scadente, ferri d’armatura mancanti, solette costruite con foratini cavi. L’edificio era stato autorizzato all’abitabilità solo pochi mesi prima, nonostante le crepe larghe un centimetro già visibili. La struttura poggiava sui muri di un ex deposito di autobus del 1942, privi anch’essi di fondazioni. Un disastro annunciato.
Le operazioni di soccorso
Il processo accertò gravi responsabilità tecniche e progettuali. Ma nessuna sentenza avrebbe potuto restituire la vita alle vittime, molte delle quali morirono nel sonno. Alle operazioni di soccorso parteciparono cittadini, militari, monaci, lo stesso sindaco Giuseppe Palmitessa e, come riportato sempre da La Stampa, il presidente della Repubblica giovanni gronchi, che si recò a Barletta e seguì personalmente l’inchiesta.
La storia dimenticata
Per anni, l’area del crollo restò vuota, soprannominata dalla gente “il cimitero”. Solo negli anni ’80 vennero costruite nuove palazzine popolari. Nessuna lapide, nessun memoriale, solo una strada intitolata «Via 16 Settembre 1959». Dibenedetto non ha mai nascosto la sua amarezza: “Imbecilli – ha detto – quelli che decisero di costruire di nuovo su quel terreno. Come se nulla fosse accaduto”.
L’ultimo custode della memoria
Oggi Teodoro Dibenedetto è l’ultimo custode di quella memoria. I suoi appunti, i suoi ricordi, le sue parole restano. E in fondo, cento anni di vita non bastano per dimenticare ciò che resta indelebile come una cicatrice sul cuore.
Fonte : Agi