Un alieno sceso sulla terra, esattamente ottant’anni fa. Non c’è altro modo per dire cos’è stato Franco Battiato non solo per la musica italiana, ma per la nostra cultura tutta. Uno, per citarlo, in contatto con “mondi lontanissimi” – lessicali, musicali, anche solo di pensiero, di filosofia – che per un certo periodo ha deciso di parlare la nostra lingua, quella della canzone pop, per aprirci gli occhi, raccontarceli. Unico e solo. Nella sua opera c’era tensione verso l’alto, e l’altro, ma senza che scadesse in qualcosa di elitario, elevato, arroccato, insomma incomprensibile. Battiato, l’uomo in sandali e codino di La voce del padrone, primo album italiano, nel 1982, a superare la soglia del milione di copie, si dice ascolto preferito della Nazionale di Bearzot di allora; Battiato, insomma, fenomeno di costume, le dediche diffuse di La cura (ma è davvero buona per tutte le stagioni?), il classico dei karaoke Cuccurucucù, Battiato che fa commuovere, cantare, ballare e in generale parla a tanti, senza essere scontato. Battiato di Povera patria, altro che populismi. Incredibile anche solo da concepire.
Un alieno sceso tra noi
E invece. E invece Battiato c’è stato, eccome. Trenta dischi in studio, tutti animati da un sacro fuoco – ovvero: avere qualcosa da dire, tiè – che non li fanno invecchiare, né sembrare superflui. Otto dal vivo (che meraviglia i concerti, gli ultimi anni stava seduto su un tappeto, con le cuffie), di cui il primo, Giubbe rosse, con in cover un richiamo: “La EMI italiana è abbastanza lieta di presentare…”. Impensabile, oggi, pure questo. Barzellettiere, pare, straordinario, oltremodo generoso nelle collaborazioni, senza la minima boria, non è stato “il maestro” che si racconta, semmai, davvero, un alieno tra gli uomini. Con la goffaggine di sorta, le stranezze e il genio (ora, per esempio, lo ricostruisce bene un libro appena uscito, a firma di Fabio Zuffanti, Sacre sinfonie. Battiato, tutta la storia, pubblicato da Il Castello). Al massimo, ecco, è stato un maestro di vita vero e proprio, una che, le risposte, le ha trovate, non le ha tenute per sé. Nella filosofia, nella meditazione, nello sconfinamento nella classica e nell’elettronica. Ma senza lezioni, senza eredi. Uno che, soprattutto, per quelle risposte ha sofferto, che le ha cercate.
Partito dalla beat già negli anni sessanta, aveva trascorso quasi tutto il decennio successivo nell’avanguardia più sperimentale, con soluzioni radicali che avrebbero riscosso un successo minimo di pubblico, ma che sarebbero poi tornate in maniera più astratta nei suoi album pop, quelli pieni di riferimenti colti e “strani” che faranno ballare l’Italia – e non solo – sulle storie dei “gesuiti, euclidei”. Parole e mistero. Come i grandi talenti, ha bisogno di tempo. Poi trova un’identità. L’era del cinghiale bianco (1979) e Patriots (1981) cresceranno alla lunga (ci sono già Prospettiva Nevski e Up patriots to arms, tra le varie), La voce del padrone è il capolavoro che stabilisce che la prova generale è finita.
Battiato, di tutti
Da lì, tante sperimentazioni dentro e fuori la canzone tradizionale, spaziando dalla musica d’autore (E ti vengo a cercare, La stagione dell’amore) a quella colta (L’oceano di silenzio), dalle spiritualità (l’altro capolavoro di Cafè de la paix, la stessa Lode all’inviolato) a pezzi che, pur stando al gioco delle radio e delle classifiche, parlano un linguaggio tutto loro, come Voglio vederti danzare e il disco best seller L’imboscata, del 1996, dove c’è proprio La cura. Un affetto – prima ancora che un successo di pubblico, comunque enorme – che spiega bene il suo ruolo nei confronti dell’ascoltatore: ciascuno, ecco, avrà un ricordo o un’emozione legata a una sua canzone. Chiunque, davvero. E il più delle volte si parla di una canzone “strana” rispetto alla media.
Il bello del genio di Battiato è che è stato avvicinabile, a disposizione, illuminante. Una su tutti, quella stessa Prospettiva Nevski in cui prende in mano per la prima volta la filosofia – che qui non sarà mai un orpello esotico né un macigno, ma un’incredibile via di mezzo – e canta: “E il mio maestro m’insegnò com’è difficile trovare l’alba dentro all’imbrunire”. Non sta lì, ecco, a spiegarci che c’è un’alba nell’imbrunire, ma c’invita a cercarla con lui. Sarà uno dei primi successi, darà inizio a tante cose. Chiuderà, alla fine, con Torneremo ancora, una sorta di testamento spirituale pubblicato quando, si dice, era già malato, nel 2019. Lì, l’ultimo tabù: la morte. Battiato aveva già fatto pace anche con quella, a noi restano le canzoni. Anche se forse non è mai davvero morto, è solo tornato al suo pianeta.
Fonte : Today