Quando si hanno di fronte titoli come Adolescence, mini serie creata da Jack Thorne e Stephen Graham (quest’ultimo la interpreta pure) e disponibile su Netflix, bisogna rapportarcisi secondo una lettura doppia. Non perché la serie sia pensata su due livelli separati, anzi, la riuscita dell’operazione dipende dal loro modo di parlarsi, ma per analizzare meglio titoli come questo è giusto dare rilevanza anche singola ai vari livelli che li compongono. Da una parte c’è il grande impianto cinematografico, che va dalla scrittura di un caso di omicidio tanto particolare quanto drammatico alla particolarissima scelta del piano sequenza continuo in ognuna delle quattro puntate, e dall’altra la grande cura per l’approfondimento tematico. In questa serie, in particolare, la fiction è quasi del tutto al servizio dell’eco sociale e psicologico che mira a proporre una panoramica sui motivi da cui scaturisce l’aggressività nelle nuove generazioni, i deficit della comunicazione presenti nel loro mondo e i limiti della genitorialità nel prevenire comportamenti malsani dei propri figli. Una giungla relazionale che spaventa tutti, ma fa scaturire domande fondamentali.
Per capire come Adolescence, nel raccontarci la storia del tredicenne Jamie Miller, si imbarca in questa impresa di indubbia difficoltà ripartiamo da due paroline sopracitate: “sociale” e “psicologico” e cominciamo con il parlare di Albert Bandura. Bandura è stato uno psicologo canadese naturalizzato statunitense, famoso per essere stato fautore della teoria dell’apprendimento sociale. Essa ha ampliato le conoscenze sui processi di apprendimento, richiamando l’attenzione sui diversi modi con cui le esperienze sociali contribuiscono alla formazione della personalità e alla regolazione della condotta. In sostanza Bandura, distanziandosi dal comportamentismo, sottolineava come l’apprendimento non avvenga solo per contatto diretto con gli elementi che influenzano la condotta (la famiglia o, nel nostro caso, un figlio che ammira il papà), ma come esso possa essere mediato attraverso l’osservazione di altre persone (il gruppo dei pari, la scuola e, oggi, le community digitali con i rispettivi codici di comportamento). L’intera riflessione di Bandura si basa sulla formulazione di un costrutto fondamentale indicato con il nome di “autoefficacia percepita”, cioè il grado con cui una persona si percepisce efficiente nei vari contesti, che è poi ciò che condiziona l’agentività, ovvero la facoltà di far accadere le cose. Senza questo costrutto cardine, capite bene, potrebbe crollare la credenza stessa di poter essere efficace all’interno di un contesto sociale, portando a conseguenze potenzialmente disastrose. Non credere di essere in grado di muoversi all’interno di una situazione causa una forte frustrazione e reazioni immediate di attacco nei confronti della situazione stessa e i suoi altri attori.
L’esperimento della bambola Bobo
Guarda caso la validità della teoria dell’apprendimento sociale ha avuto come punto cardine gli studi sull’aggressività. In particolare è stato incredibilmente esemplificativo il famosissimo esperimento della bambola Bobo. Bandura (sempre lui) formò tre gruppi di bambini in età prescolare: nel primo gruppo inserì uno dei suoi collaboratori che si mostrò aggressivo nei confronti di un pupazzo gonfiabile chiamato Bobo. L’adulto picchiava il pupazzo con un martello gridando. Nel secondo gruppo, quello di confronto, un altro collaboratore giocava con le costruzioni di legno senza manifestare alcun tipo di aggressività né interesse nei confronti di Bobo. Infine, il terzo gruppo, quello di controllo, era formato da bambini che giocavano da soli e liberamente, senza alcun adulto con funzione di modello. In una fase successiva, i bambini venivano condotti in una stanza nella quale erano messi a disposizione giochi neutri (peluche) e giochi aggressivi (fucili, martelli finti). Bandura poté verificare che i bambini che avevano osservato l’adulto picchiare Bobo manifestavano un’incidenza maggiore di comportamenti aggressivi sia verso persone sia verso oggetti, rispetto a quelli che avevano visto il modello pacifico e a quelli che avevano giocato da soli. Gli esperimenti, in seguito riprodotti, hanno osservato gli stessi risultati anche tra gli adolescenti, sia maschi sia femmine, in soggetti con indole aggressiva o no.
Adolescence descrive benissimo questo impianto teorico, presentandoci un quadro in cui sono presenti tutti gli ingredienti per una sua riprova: un ragazzo con una fragilità interna importante vede sciogliersi la propria immagine di persona autoefficace a causa di una cornice in cui viene depersonalizzato e respinto (esperisce un comportamento violento), reagendo a sua volta con un’agentività distruttiva non solo nei riguardi di un’ipotetica personificazione di questa realtà (la ragazza che lo umilia), ma anche nei confronti di se stesso, replicando il modo di comunicare che da quella stessa realtà ha appreso secondo il cosiddetto principio di restaurazione di equità. Questo è un altro concetto fondamentale nella psicologia sociale, adoperato in special modo per spiegare la transizione da vittima a carnefice nel bullismo (e nel cyberbullismo). Un fenomeno importantissimo e gravissimo che nasce spesso in contesti tra pari dove la sopraffazione e la deumanizzazione diventano delle tendenze rilevanti ed è spesso influenzato dalla categorizzazione basata su rapporti di potere. In Adolescence c’è la popolarità che misura tutto come un giudice supremo e una divisione esplicita tra maschi desiderabili e incel e ragazze che da una parte hanno la capacità di ghettizzare e dall’altra sono prede di moti “vendicativi”. Una scelta di ingredienti evidentemente ponderata dei creatori della serie Netflix per evidenziare la necessità di parlare della comunità dei cosiddetti involuntary celibates (“casti non per scelta”), una realtà sempre più presente a livello sociale grazie alle community che nascono sui social e che ha portato spesso ad esplosioni di violenza maschile ai danni delle donne, specialmente nel Regno Unito, dove sono ormai da tempo oggetto di studio dei cosiddetti men’s studies.
Fonte : Wired