Compleanno speciale per Ivan Ljubicic, che spegne oggi 46 candeline. Diciannove anni fa, minuto più, minuto meno, stava per scendere in campo da numero 6 del mondo contro l’amico Federer nella finale del 1000 di Miami (poi persa con un triplice 7-6) e da lì a poco avrebbe raggiunto la semifinale del Roland Garros 2006 e il suo best ranking.
Ivan è stato ed è molte cose. Un ragazzo che arriva in Italia per sfuggire dalla Guerra dei Balcani sognando di giocare a Wimbledon come il suo idolo Stefan Edberg. Un tennista così straordinario da raggiungere la terza posizione mondiale – quando davanti a lui aveva “solo” Federer e Nadal -, vincere 10 titoli ATP e una Coppa Davis. Un coach scelto per allenare il talento più limpido della storia del tennis, Re Roger, e capace di riportarlo in vetta alla classifica e a vincere tre Slam dopo cinque anni di digiuno.
Oggi Ljubicic è il riferimento principale del settore tecnico di alto livello della Federazione francese, dirige la sua Academy nella splendida isola di Lussino, è fra i più apprezzati commentatori di Sky, ma soprattutto una figura influente nel mondo del tennis (quale top ten riuscirà a convincerlo a tornare a bordo campo? Si accettano scommesse).
Lo abbiamo incontrato a margine di un evento di I Tennis Foundation, associazione benefica italiana a cui Ivan non fa mai mancare il suo supporto: anche da questi particolari si giudica una grande persona.
Quanto sarà complicato per Sinner gestire questo periodo senza partite ufficiali?
“Non credo che il fatto di non giocare per tre mesi match ufficiali sia un problema. Per prima cosa perché può migliorare alcune cose, ma soprattutto perché sarà alleggerito dall’aver chiuso finalmente questa vicenda con la Wada. In questo periodo potrà allenarsi su aspetti che normalmente non hai modo di allenare a questo punto della stagione perché, quando devi cambiare qualsiasi cosa hai bisogno di tempo e lui, in questo momento, ha tempo e lo farà”.
Sinner può fare il Grande Slam?
“Avendo vinto il primo Slam in Australia, è l’unico che può riuscirci quest’anno! Non so se vincerà Parigi o meno, ma voglio dire due cose. Primo: credo che nei prossimi 10-15 anni qualcuno farà il Grande Slam. Le condizioni di gioco sono sempre più simili, quindi chi domina il primo Slam può dominare anche gli altri tre. Oggi le condizioni di gioco sono più uniformi rispetto al passato, quando in Australia faceva molto caldo, Parigi era lenta, Wimbledon velocissimo e New York umida. Questo facilita il compito di chi vuole puntare a vincere tutti e quattro i tornei. Secondo: oggi, se dovessi scommettere 1€ su qualcuno, lo punterei su Sinner. Chi può essere più forte di lui al Roland Garros? Una volta c’era Nadal, e sappiamo che nessuno poteva batterlo lì. Ma oggi non c’è nessuno imbattibile su terra. Magari Sinner non vincerà mai Parigi, ma non vedo perché non potrebbe farlo già quest’anno”.
Lui, Alcaraz e Fonseca potrebbero essere considerati i nuovi Big Three?
“Aspetterei un attimo a inserire nello stesso discorso ragazzi che hanno già vinto alcuni Slam con un giovane che ha vinto un paio di partite. Certo, il brasiliano promette benissimo, ma per immaginare un’era come quella dei Big Three significa aspettarsi che questi tre giocatori vinceranno sempre tutti gli Slam. Diciamo però che loro tre sono i giocatori più entusiasmanti di questa generazione”.
Draper, Shelton, i francesi Fills, Perricard, lo stesso Musetti, oltre a Rune, che si pensava fosse il più pronto: ci sarà spazio anche per loro?
“Potrebbero inserirsi, ma non sono ancora a quel livello e bisogna dirlo apertamente. Fills ha qualità che potrebbero portarlo lontano, ma deve ancora lavorarci molto e non è assolutamente vicino in questo momento. Ma come gli altri che hai citato. Oggi non posso mettere nella stessa frase questi giocatori con Sinner e Alcaraz. Sono giovani, giocano bene, ma da qui a vincere più Slam è un’altra cosa”.
Prima del tuo incarico attuale nella Federazione francese, hai allenato sette anni Roger Federer e prima di lui un top ten come Raonic: come si trova l’equilibrio tra allenare la parte tecnico-tattica di un giocatore e la parte mentale? Perché poi è quella che fa la differenza se vuoi emergere nel tennis…
“Alla fine, credo che escano fuori i giocatori e le giocatrici che ci tengono di più, quelli che hanno più fame, che abbaiano di più, che migliorano più velocemente, che sono un po’ ossessionati dal tennis. Anche attraverso l’esperienza con la mia Academy, negli ultimi anni sono molto a contatto con giovani che hanno l’ambizione di diventare tennisti e ti posso dire che, quando analizzi perché uno è arrivato al top e un altro non c’è riuscito, comprendi che alla fine è determinante la voglia che hai dentro, quanto sei motivato nel voler fare la differenza. Non emerge chi ha il miglior dritto o il miglior rovescio, ma chi quando va a dormire pensa al tennis, quando fa la colazione alla mattina pensa a come giocare meglio all’allenamento. Tutto questo fa parte del carattere. Sono aspetti su cui ci si può lavorare, però parte tantissimo da casa, dalla famiglia e da come sei stato cresciuto”.
Dalla tua Academy a Lussino alla Federazione francese, fino al tuo impegno nell’associazione benefica I Tennis Foundation: qual è l’aspetto più complicato oggi nel far comprendere ai più giovani quanto hai appena spiegato?
“È difficile, perché ovviamente io ho visto di tutto nel tennis e so cosa ci vuole, però trasmetterlo non è semplice. Ci sono dei ragazzi che sono più veloci di altri ed è un piacere lavorarci. Con altri invece non riesci a trovare la chiave per entrare nella loro testa. Non parlo nemmeno di motivazione, perché credo fortemente che, se un giocatore non è motivato allora è finita prima ancora di cominciare. Entrare nei primi 150 della classifica mondiale è possibile non dico per tutti, ma quasi. Sei ha una grande disciplina e una grande volontà, secondo me, alla lunga rischi di arrivarci vicino. Quelli che veramente fanno la differenza viaggiano a un’altra velocità, sono quelli ai quali non devi ripetere cinque volte la stessa cosa e di cui vedi i progressi costantemente”.
Quanto è importante quanto sta facendo I Tennis Foundation, associazione di cui sei membro onorario e supervisor, per sostenere giovani di talento ma privi delle opportunità economiche di valorizzarle?
“È molto importante perché è un’opportunità straordinaria per tanti ragazzi. Per me, quando sono arrivato in Italia dalla Bosnia, ha rappresentato la mia unica opportunità per emergere e sono riuscito sfruttarla al massimo. Ma non solo io. Tutti i ragazzini bosniaci che sono venuti con me a Torino in quel periodo hanno trovato la loro strada grazie al tennis. Chi in Germania, chi negli Stati Uniti e chi altrove, ma tutti alla fine sono riusciti a sistemarsi sfruttando quell’opportunità legata al tennis. Questo è molto importante, perché in apparenza potrebbe sembrare che solamente io ce l’abbia fatta, ma non è così. Non saranno arrivati nei primi dieci al mondo, però oggi vivono con il tennis. Le attività benefiche di I Tennis Foundation sono molto importanti perché influiscono non solo sulle carriere sportive dei ragazzi, ma sulle loro vite e quindi sulle famiglie che si formeranno. Per questo sarò assolutamente grato per tutta la vita dell’opportunità che mi è stata data più di trent’anni fa e per questo ho deciso di sostenere I Tennis Foundation. Progetti così non ce ne sono e anch’io cerco di dare il più possibile il mio contributo perché so quanto sia importante. Perché, se non ci fosse I Tennis Foundation, chi altro farebbe una cosa del genere?”.
Tra le migliaia di chiacchierate che hai fatto con Roger Federer, c’è una sua frase o un esempio che ripeti ai tuoi allievi dell’accademia o ad altri tennisti? Qualcosa che usi spesso per spiegare ai più giovani che cos’è il tennis?
“Penso che ci siano tanti spunti, non so se c’è proprio una frase specifica, ma ci sono due cose che ripeto spesso. La prima è una sua convinzione: il talento non può sostituire il lavoro. Il lavoro è fondamentale, e se hai talento, è proprio quello a fare la differenza. Ha sempre dato priorità al duro lavoro. La seconda è l’importanza di non fermarsi mai nell’apprendere, di aggiungere sempre qualcosa al proprio tennis. Ed è questa la vera difficoltà: i giocatori, crescendo, spesso si abituano a fare una cosa che dà risultati e finiscono per ripeterla, senza rendersi conto che così non migliorano né evolvono. Si arriva a un punto in cui fai meglio ciò che già sai fare, ma sei comunque limitato. Roger, invece, non ha mai voluto avere limiti. Continuare a imparare, crescere, sperimentare: per lui era essenziale. E soprattutto non aveva paura di provare cose nuove, perché ciò che già conosci non lo dimentichi”.
La tua percezione di lui è cambiata quando sei passato da essere uno dei suoi avversari ad essere il suo allenatore?
“Prima di allenarlo, avevo già fatto delle preparazioni con lui e sapevo quanto fosse dedito al lavoro. Ma quando ho iniziato a vivere accanto a lui, per sette anni, ho capito perché è uno dei più grandi di tutti i tempi. L’attenzione ai dettagli, la professionalità… mai una volta in sette anni mi ha chiesto di tagliare un allenamento, anzi, spesso mi chiedeva di fare di più, di aggiungere sessioni extra. Queste sono le cose che fanno la differenza, che fanno un campione. Anche se lo sapevo, viverlo da vicino è stato incredibile”.
Il coaching in campo è stato sdoganato, ma tu sei cresciuto alla scuola di Riccardo Piatti, dove l’obiettivo era fornire gli strumenti per prendere le decisioni giuste autonomamente in campo. Ti piacciono le nuove regole sul coaching?
“Non mi piacciono per niente. Vanno contro la storia del tennis e l’essenza di questo sport: trovare le soluzioni da solo e gestire la pressione per uscirne fuori. Ma c’è di peggio. Credo che il problema maggiore sia nei tornei juniores: i ragazzi, abituati a essere continuamente guidati, smettono di ragionare con la propria testa. E non parlo solo di tennis. Oggi molti giovani sono abituati a ricevere istruzioni in ogni momento della loro vita, e quando si troveranno a dover pensare da soli, cosa faranno? Per me è una cattiva abitudine che va oltre lo sport”.
Fonte : Today