Guardiamo ai fatti. A parte l’ovvio riferimento a IBM, Big Tech è dovunque.
Microsoft ha una presenza diffusa, profonda e radicata nel governo, nella pubblica amministrazione centrale oltre che nel mondo delle imprese e delle professioni a partire dal sistema operativo e fino ad arrivare alle piattaforme come Office365 e ai data-centre Azure; e persino la Commissione Europea si è “improvvisamente” accorta di dipendere eccessivamente da questo fornitore.
Google non è da meno con i propri prodotti e servizi cloud, e con la propria infrastruttura di gestione della posta elettronica e del DNS, mentre Adobe regna sovrana nel document management e nel settore degli strumenti per la generazione di contenuti.
Oracle è una presenza consolidata nel settore dei database, e non parliamo del progressivo radicamento di Amazon nel settore della logistica. Sempre parlando di e-commerce, non possiamo dimenticare E-bay e Paypal e, rimanendo nell’ambito delle piattaforme, il nome Meta è autoesplicativo.
Fra i produttori di “oggetti intelligenti” Apple è una presenza più che consolidata nel settore degli smartphone e poi ci sono tutte quelle aziende meno conosciute al grande pubblico, ma che hanno posizioni e ruoli importanti come, per esempio, Crowdstrike, la multinazionale USA della cybersecurity il cui errore nella diffusione di un aggiornamento software paralizzò, nel luglio 2024, molte infrastrutture italiane.
NetApp è un’altra azienda sconosciuta ai più ma che ha una posizione importante nel settore della memorizzazione di enormi volumi di dati.
La lista potrebbe continuare ancora a lungo, ma a questo punto il concetto è chiaro.
Quanto è diffusa la dipendenza tecnologica dagli USA
Per capire cosa vuol dire concretamente tutto questo prendiamo uno dei casi di studio italiani presentati proprio da NetApp, quello di Italgas, cioè la più grande azienda italiana della distribuzione del gas, una materia prima diventata essenziale per imprese e (tasche dei) cittadini.
Italgas, si legge nel documento che racconta il progetto, usa database Oracle, su infrastruttura Microsoft Azure, e prodotti di gestione dati NetApp.
Proviamo ora a immaginare che queste aziende, dalla sera alla mattina, revochino le licenze d’uso dei software utilizzati per far funzionare questo complesso sistema e risolvano i contratti con Italgas (come, per esempio, avrebbe fatto l’azienda israeliana che fornisce strumenti di intercettazione ai servizi e all’autorità giudiziaria dell’Italia). Le conseguenze sul breve periodo sono molto facili da immaginare.
La storia è destinata a ripetersi?
Fantapolitica? Complottismo? Ipotesi destituita di fondamento?
Non tanto, se si pensa già nel 2017 l’allora (e attuale) Presidente USA, Donald Trump, emanò un executive order che disattivò (pur temporaneamente) tutte le copie dei software Adobe in Venezuela nell’ambito di un più ampio pacchetto di sanzioni, e che nel 2019, sempre nel corso della presidenza Trump, Huawei è stata esclusa dalla possibilità di integrare i servizi Google nei propri device mobili.
Merito a parte, dunque, è poco discutibile il fatto che anche Big Tech sia parte dell’arsenale geopolitico USA e che, come ogni arma, venga utilizzata a seconda delle necessità strategiche. Scriveva Primo Levi che quando qualcosa è accaduto una volta può accadere ancora. Dunque, chi può escludere che gli USA non ricorreranno a provvedimenti analoghi a quelli già emessi, ma questa volta mirati verso la UE, se non altro per colpire il regime ipernormativizzato e le sanzioni che affliggono Big Tech —e in definitiva il controllo tecnologico sulla UE?
Il rischio reciprocità innescato dalle sanzioni
Fino ad ora, nonostante le inutili pastoie burocratiche imposte dal regolamento sulla protezione dei dati personali in funzione anti USA, le costosamente inefficaci regole sui caricabatterie dei cellulari, le irrealistiche norme del regolamento AI e le sanzioni multimilionarie imposte alla Big Tech di turno — un balzello che copre la non volontà di risolvere i problemi sottostanti— nessuno, in USA, ha ancora deciso di premere il “kill switch”. Ma è anche vero che proprio per il suo atteggiamento la UE è tagliata fuori dalla disponibilità di alcuni prodotti di punta e in particolare di quelli che fanno utilizzo di o servono per costruire intelligenza artificiale.
D’altro canto, i fatti dimostrano che oggi l’amministrazione USA in carica ha scelto una strategia che somiglia alla Blitzkrieg —la guerra lampo— e che privilegia l’uso diretto della forza rispetto a meccanismi di coazione più chirurgici ma meno efficaci sul breve periodo. Quali che siano le ragioni e l’efficacia di questa scelta, l’effetto tattico è quello di uno scenario che cambia di continuo e che impedisce agli avversari di avere il tempo per organizzare contromisure.
Il problema del tempo e della visione
Come il caso di ReArm Europe, infatti, anche quello dell’ottenimento prima dell’indipendenza e poi della sovranità tecnologica europee non può essere affrontato semplicemente facendo piovere soldi dal cielo —o togliendoli da altre voci dei bilanci degli Stati.
Sembrerà controintuitivo in un’era in cui tutto, comprese le soluzioni ai problemi, deve avere la velocità di un tweet, ma il cambiamento ha bisogno di tempo, tanto tempo. Dunque è semplicemente impossibile che, a fronte di un eventuale disattivazione o limitazione dell’uso dei prodotti tecnologici USA, si possa pensare di risolvere il problema annunciando l’ennesimo piano europeo da centinaia di miliardi di Euro (trovarli sarebbe un altro paio di maniche) e archiviare il dossier.
La impraticabilità sul breve periodo dell’alternativa open source
Per convincersene basta fare un piccolo esercizio estremizzando la situazione.
Se si esclude di voler cadere dalla padella alla brace, e dunque di abbandonare le tecnologie USA in favore di quelle cinesi, l’altra opzione è migrare verso programmi e piattaforme open source o libere visto che gran parte di ciò che servirebbe c’è già e quello che manca si potrebbe far realizzare con un massiccio piano di investimenti per lo sviluppo di software italiano o europeo.
A parte la non banale questione che i programmi per funzionare hanno bisogno di computer e che i computer non sono fatti dall’Italia o dalla UE, fra tempi di sviluppo, integrazione e “posa in opera” passerebbero anni, nel corso dei quali i padroni delle tecnologie straniere non starebbero certo con le mani in mano mentre il mercato europeo sfugge dal loro controllo.
È vero, come dimostra oggi il caso dell’energia, che è possibile pensare a strategie per gestire una migrazione verso altre fonti di approvvigionamento senza interrompere le relazioni commerciali in corso. Ma proprio il caso dell’energia dimostra come un cambio del genere richieda in ogni caso tempo e investimenti, oltre alla creazione di nuovi rapporti di dipendenza che potrebbero non essere meno problematici di quelli che sono stati interrotti.
Dazi o sanzioni?
A stretto rigore, i dazi non sono sanzioni e quindi non sarebbe corretto utilizzare indifferentemente i due termini. Tuttavia, memori delle immortali parole del Bardo, è un fatto che una rosa chiamata in un altro modo non è meno profumata.
Poco importa, dunque, che formalmente un dazio sia una “semplice” misura di protezione del mercato interno perché se viene usato in modo offensivo diventa, a tutti gli effetti, una sanzione non dichiarata. D’altra parte, anche le roboanti minacce della UE sulle “rappresaglie” alle “tariffe illegali” imposte dagli USA lasciano intendere che la situazione sia ben più seria di una “normale” contesa commerciale gestita con gli strumenti previsti dalla World Trade Organisation.
Sarebbe semplicistico dipingere in bianco e nero il quadro degli attuali rapporti fra USA e UE perché la realtà della diplomazia è fatta di infinite sfumature e di impercettibili, ma sostanziali, transizioni dall’una all’altra; ma proprio per questo, quindi, sarebbe utile evitare di radicalizzare la contrapposizione, peraltro con misure potenzialmente in grado di tornare indietro come un boomerang.
Chi paga (per) le sanzioni?
Anche a voler prescindere da tutte le considerazioni di sistema svolte fino a qui, infatti, ce n’è una che scrive la parola fine sull’idea dei dazi per BigTech: imporre pesi economici sui prodotti e i servizi di Big Tech significa solo aumentare il prezzo pagato da cittadini, imprese e istituzioni per quei prodotti e quei servizi, visto che non possono fare a meno di usarli.
La logica del dazio è, infatti, quella di scoraggiare l’acquisto del prodotto straniero a favore di quello nazionale o prodotto da Paesi amici. Nel caso di Big Tech, tuttavia e anche a causa del tempo necessario alla transizione tecnologica, l’effetto immediato dei dazi è soltanto rendere più costoso ciò che si deve usare per forza, dal momento che nel breve periodo non ci sono alternative.
Se imposto, dunque, il dazio Big Tech sarebbe scatenerebbe una tempesta perfetta: non danneggerebbe le imprese americane, rendendole più ricche, ma farebbe danno all’Italia, rendendola più povera e complicando il processo di transizione verso l’indipendenza e l’autonomia tecnologica.
Fonte : Repubblica