I dissidenti religiosi nella Russia ortodossa

Si è tenuta nei giorni scorsi la conferenza internazionale on-line delle IX “Letture di Jakunin”, iniziate nel 2016 a due anni dalla morte di uno dei più importanti dissidenti religiosi dei tempi sovietici, padre Gleb Jakunin. Nel 1965, da giovane sacerdote ortodosso, egli aveva inviato all’allora patriarca Aleksij I (Simanskij, detto il “patriarca di Stalin”) una lettera scritta insieme al suo confratello Nikolaj Ešliman, in cui accusava la gerarchia della Chiesa russa di sostenere il regime comunista che opprimeva la popolazione, negando anche la libertà di professione religiosa. Dopo aver trascorso otto anni nei lager sovietici, Jakunin fu liberato negli anni della perestrojka di Gorbačev, e divenne deputato della Duma di Mosca contribuendo all’approvazione delle prime leggi sulla libertà religiosa, poi limitate e stravolte nella Russia putiniana. Deluso dall’evoluzione post-sovietica del patriarcato di Mosca, che non riesce mai a staccarsi dal sostegno alle politiche statali, padre Gleb fondò una sua Chiesa “ortodossa apostolica”, rimanendo fino alla fine un sostenitore indomito della libertà di coscienza.

La conferenza di quest’anno era dedicata al tema dei “Vecchi e nuovi dissidenti religiosi”, nel contesto delle continue pressioni e scomuniche dei sacerdoti che condannano la guerra del regime di Putin e del patriarca Kirill, o anche soltanto che non “pregano per la Vittoria”. Molti infatti sostengono che bisogna tornare ad usare il termine “dissidenti” anche in questo periodo di “sovranismo ortodosso”, e superare quello di semplici “oppositori” come è sempre stato chiamato il martire Aleksej Naval’nyj, applicando il concetto di “dissenso” anche nelle questioni religiose che non riguardano più il confronto tra l’ateismo e la professione di fede, ma tra la “teologia politica” patriarcale e l’esperienza di fede che rifiuta la guerra.

Il filosofo siberiano Nikolaj Karpitskij, che oggi vive sul confine della guerra a Slavjansk nella regione di Donetsk, ha tenuto una relazione su “La guerra e la crisi dell’identità religiosa”, affermando che il problema del dissenso religioso nasce quando “le regole ecclesiastiche e canoniche si irrigidiscono e non ammettono alcuna contraddizione interna… in tempi pacifici queste contraddizioni possono rimanere sottotraccia, ma la guerra le mette in evidenza”. A suo parere, il meccanismo della trasformazione della religione in ideologia si attiva quando “la tensione a proporre le proprie posizioni morali nella società si traduce non in una predicazione religiosa, ma in una pretesa nei confronti di tutti, anche di chi sostiene altre convinzioni”. In questo caso ci si appella alla “ideologia dei valori fondamentali”, di fatto una “imitazione della religione” che trasforma la fede in una sua “parodia a favore del potere”.

È questa in effetti la parabola della “rinascita religiosa” della Russia post-sovietica, che ha continuato a piegare la religione all’ideologia, ottenendo un risultato ancora più oppressivo della stessa propaganda dell’ateismo di Stato. Karpitskij definisce l’ortodossia obbligatoria dei russi di oggi come una obradoverie, una “credenza rituale” acritica che si sottomette alle autorità religiose e ne osserva le pratiche formali, che “si adattano alle condizioni socio-politiche, finendo per servire solo al potere politico regnante”. In fondo questa era l’interpretazione dell’Ortodossia anche ai tempi sovietici, contro la quale si sviluppava il dissenso religioso di padre Gleb Jakunin e di tanti altri, come padre Aleksandr Men, ucciso nel 1990 dalle forze oscure del regime che stava cambiando pelle, per non perdere il proprio potere. L’ideologia dei valori finisce per proiettarsi come una visione imperiale e universale, rivolta al volere dell’Altissimo come fonte di ogni principio di ordine mondiale, finendo per giustificare la dittatura e la guerra nei confronti dei “nemici della vera fede”.

Le “Letture di Jakunin” sono organizzate da Elena Volkova, autrice di un importante libro sul sacerdote dissidente, Glyba Gleba, il “Blocco di Gleb”, che parla di un “evidente regresso alle politiche sovietiche” del regime attuale, che sta mettendo in evidenza anche la riemersione del movimento dei dissidenti. In fondo “si tratta sempre dello stesso Paese e dello stesso patriarcato di Mosca, quello dei sergiantsy menzogneri”, afferma usando una definizione in voga tra i dissidenti religiosi degli anni Sessanta, che accusavano i vertici ecclesiastici di tradimento delle proprie stesse tradizioni a partire dalla sottomissione del metropolita Sergij (Stragorodskij), il primo a riconoscere il regime sovietico diventando poi il primo patriarca restaurato da Stalin nel 1943, per sostenere la guerra contro il nazismo.

Del resto, ricorda Volkova, il termine “dissidenti” risale ai protestanti inglesi dei secoli XVI-XVII, che non accettavano i compromessi di Enrico VIII con le tradizioni cattoliche dopo la rottura con Roma, fondando la “Chiesa ibrida” anglicana. I puritani, i quaccheri e altri gruppi chiedevano la vera adesione alle riforme nate dallo scisma luterano, e venivano appunti definiti “dissidenti” o dissenters, un termine nato quindi per evidenziare chi contesta la Chiesa dominante nel proprio Paese. Alla conferenza ha partecipato anche il protoierej Georgij Edelstein, un grande amico di padre Gleb Jakunin, oggi novantatreenne, emigrato in Israele in questi anni di guerra, di fatto il “patriarca” del dissenso religioso russo. Egli stesso non si ritiene un dissidente, considerando illegittima l’attuale Chiesa del patriarcato di Mosca rifondata da Stalin, bensì un sacerdote della “autentica Ortodossia pre-rivoluzionaria”. Padre Georgij era membro del “Gruppo di Helsinki”, fondato dopo la Dichiarazione dei Diritti dell’Uomo firmata nel 1975 anche dall’Unione Sovietica, sostenuta allora anche dalla Santa Sede nel pieno della Ostpolitik vaticana di quegli anni.

Secondo padre Georgij, “sul territorio della Russia storica, da Pietroburgo a Vladivostok, si trova ancora oggi lo Stato fondato a ottobre del 1917 da Lenin, Trotskij e Stalin”, quello Stato che il filosofo Ivan Il’in chiamava sarcasticamente Sovdepija, dalla prima definizione di Sovet Deputatov, il “Soviet dei deputati”, da cui deriva il termine Sovok, il cittadino “dei Soviet” che ancora oggi indica coloro che rimangono fortemente legati all’eredità sovietica, di cui il presidente Vladimir Putin è il vero rappresentante. Edelstein afferma di “non capire come oggi coloro che si ritengono i veri patrioti russi e venerano Il’in come il loro pensatore di riferimento, non ricordino il suo monito a non confondere la Russia con la Sovdepija”. A suo parere il regno dei Sovok si è “trasfigurato” più volte, con le riforme leniniane della “Nuova Politica Economica”, il disgelo khrusceviano fino alla perestrojka gorbacioviana e al putinismo post-sovietico, ma “sono solo dei cambiamenti di nome, come nella favola in cui le capre si illudono che quando il lupo parla con i versi delle capre, allora smette di essere un lupo”.

I dissidenti sovietici erano coloro che difendevano i diritti umani, come quelli della Carta di Helsinki, con una visione umanitaria e democratica, orientata al rispetto delle leggi e del diritto internazionale, che usavano lo slogan contro il totalitarismo sovietico “Rispettate la vostra Costituzione!”. Anche padre Jakunin difendeva il legalismo, che pur conteneva molte discriminazioni nei confronti dei credenti, denunciando la violazione del principio della separazione della Chiesa dallo Stato imposto dallo stesso Lenin. La Chiesa sovietica era invece totalmente al servizio dello Stato come oggi la Chiesa putiniana, e di nuovo vengono calpestati i principi costituzionali, per non parlare dell’ormai derelitto diritto internazionale. Tra i vari gruppi di dissidenti religiosi, come ricorda l’attivista umanitario Lev Levinson, c’erano le varianti più diverse, da quelli che sognavano la restaurazione della monarchia zarista ai nazionalisti russi di varie sfumature, fino ai sinceri democratici come Jakunin o Zoja Krakhmalnikova, scrittrice e pubblicista scomparsa nel 2008, e tanti altri ancora.

Anche oggi non si riesce a dare un’espressione compiuta e condivisa del dissenso degli “oppositori” anti-putiniani, che a fine febbraio sono sfilati in qualche migliaio per le vie di Berlino guidati da Ilja Jašin, Vladimir Kara-Murza e da Julia Naval’naja, la moglie di Aleksej, i cui seguaci del resto sono in polemica con tutti gli altri “dissidenti” in patria e all’estero. Anche tra i sacerdoti ortodossi russi che intervengono contro le “liturgie belliche” ci sono posizioni molto diverse, da quelli che cercano comunque di rimanere dentro la Chiesa patriarcale a quelli che si rivolgono ad altre giurisdizioni ortodosse, chi si limita a una resistenza passiva e chi interviene esplicitamente contro i vertici e lo stesso patriarca, come il teologo e diacono Andrej Kuraev, oggi all’estero dopo essere stato scomunicato e messo sotto inchiesta per “diffamazione delle forze armate”.

Kuraev ha pubblicato recentemente un libro in più volumi sulla “Mitologia delle guerre russe”, per mostrare l’inganno della “più grande potenza terrestre, che si vuole mostrare come la più amante della pace” facendo guerre da sempre a tutte le latitudini, cercando motivazioni sacre e superiori. Uno dei miti più ricorrenti da lui denunciati è quello del presunto “odio dell’Europa e dell’Occidente nei confronti della Russia”, che serve a giustificare le aggressioni e le invasioni come quella di questi anni in Ucraina. Il dissenso, come insegnava il grande scrittore e dissidente Aleksandr Solženitsyn, è anzitutto la ricerca della verità, per “vivere senza menzogna” non contro qualcuno, ma per difendere la libertà e la dignità di ogni essere umano, di ogni figlio e figlia di Dio.

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Fonte : Asia