La città proibita: il wuxia italiano di Gabriele Mainetti sorprende tra azione e ironia

Quello di Gabriele Mainetti è un cinema che nessuno riesce a fare in Italia: ambizioso, hollywoodiano, iper-pop. È il cinema di un regista che ha idee concrete e che non teme di portarle su schermo, trasposte in una società e una quotidianità tutta italiana. Se Lo chiamavano Jeeg Robot esplorava il tema dei supereroi alle prese con la criminalità organizzata italiana (fate un salto indietro sulla nostra recensione di Lo chiamavano Jeeg Robot), se Freaks Out espandeva (ed esasperava) questo concetto in un vero e proprio superhero movie corale a sfondo storico (e qua ecco la nostra recensione di Freaks Out), con La città proibita Mainetti guarda al cinema orientale, alle pellicole sulle arti marziali. Ma al posto di palazzi imperiali e foreste dei pugnali volanti c’è la Roma dei giorni nostri. Parodia, quindi? Niente affatto: La città proibita è in tutto e per tutto un elettrizzante film di genere, un revenge movie duro e puro che non fa sconti a nessuno e che possiamo annoverare tranquillamente tra i migliori action italiani di sempre.

Dalla città proibita alle strade di Roma

Immagina una storia di vendetta al sapore di kung fu: una giovane donna in cerca di sua sorella maggiore, che per sfuggire dalla miseria in Cina è finita in un giro di prostituzione e risulta dispersa in Italia, in una Roma multietnica e spaccata tra criminalità locale e piccoli clan locali. Aggiungi all’equazione Marco Giallini, Sabrina Ferilli e Luca Zingaretti e il risultato è il mix che non ti aspetti: un sorprendente wuxia all’italiana che non teme il confronto con i migliori film di genere.

Mei è un’esperta di arti marziali che, una volta giunta nella capitale, deve fare i conti con il sottobosco criminale locale per ritrovare sua sorella. Incontra Marcello, figlio del proprietario di un ristorante scomparso insieme alla giovane cinese e coinvolto in una serie di affari loschi, e i due decidono di unire le forze per ritrovare i rispettivi parenti. Il tono del film è ben chiaro sin dal suo incipit: una sequenza di azione incredibile dai sotterranei di una casa di piacere orientale nascosta all’interno di un ristorante, con la protagonista che sgomina intere orde di criminali a mani nude.

Esce poi dal locale per farci capire che non siamo in Cina, ma tra le strade di una Roma caotica tra clacson e automobilisti furibondi. Perché La città proibita è un film che oscilla costantemente tra il serio e il faceto, che non rinuncia a un’ironia tutta italiana ma neppure fa sconti nella sua intelaiatura action, diretta con piglio hollywoodiano e con estrema consapevolezza.

Tra wuxia e mélo

Quello di Mainetti è un film per certi versi più piccolo rispetto al roboante Freaks Out, una pellicola che recupera da Lo chiamavano Jeeg Robot il gusto per le storie di periferia, per un cinema più concreto e anche più contaminato. È un film di azione purissimo, costruito attorno ad una manciata di grandi sequenze d’azione, ma è anche ammantato di un’ironia pungente e di una dolcezza latente che esplode col passare dei minuti, fino a diventare qualcosa che si pone a metà strada tra un wuxia e un mélo, in un equilibrio costante e delicato tra i suoi toni maturi e una storia d’amore apparentemente impossibile.

Proprio in quest’ultimo aspetto risiede forse l’elemento più classico e stucchevole dell’opera, a tratti un po’ troppo distaccato e patinato dalla sua controparte più cruda e spettacolare. Perché La città proibita stupisce moltissimo proprio quando deve districarsi tra coreografie di scontri all’orientale e una messinscena violentissima, che non fa sconti in termini di violenza: segmenti in cui il film stupisce per la maturità e la consapevolezza con cui Mainetti utilizza la macchina da presa per esplorare un tipo di cinema nuovo, maturo e ambizioso. La ricerca di un dramma sentimentale “all’italiana” fa da contraltare fisiologico a una pellicola che per fortuna ha ritmo da vendere, e seppure a tratti strida un po’ con tutto il resto risulta comunque funzionale allo sviluppo del racconto.

Questo grazie anche al carisma di un cast multietnico e perfettamente amalgamato: da una parte volti sconosciuti ed eterei come quello della splendida protagonista, Yaxi Liu, dall’altra veterani del cinema italiano come Giallini, Ferilli e Zingaretti: i primi due, a tratti, un po’ troppo intrappolati nei ruoli stereotipati di un criminalotto incallito e di una donna disillusa in cerca del suo vero amore, il terzo impiegato con furbizia in un “non-ruolo”, quello di un uomo scomparso in circostanze misteriose di cui apprendiamo valori e psicologia attraverso il racconto e le rivelazioni della trama.

Fonte : Everyeye