Dopo il colpo di Stato del 2021, il Myanmar ha superato l’Afghanistan: il valore stimato della produzione oscilla tra 589 milioni e 1,57 miliardi di dollari. La crisi economica e il conflitto armato hanno spinto agricoltori e sfollati a riconvertire le proprie terre, nonostante gli scarsi guadagni. Il flusso di denaro finanzia sia la giunta militare sia le milizie etniche ribelli.
Yangon (AsiaNews) – Se c’è una certezza che emerge dal caos in cui è precipitato il Myanmar dopo il colpo di Stato militare del primo febbraio 2021, è la ripresa su vasta scala della produzione di oppio, che ha riportato il Paese al primo posto nel mercato globale.
Secondo l’Ufficio delle Nazioni unite per il controllo della droga e la prevenzione del crimine (UNODC), il valore dell’oppio prodotto e commercializzato in Myanmar è stimato tra 589 milioni e 1,57 miliardi di dollari, in parte destinato anche al consumo interno. La crescita della produzione è il risultato di una crisi profonda e complessa, definita dalle Nazioni unite come una “crisi multipla” (polycrisis), in cui conflitto, povertà e degrado ambientale si intrecciano da quattro anni. Questo ha permesso al Myanmar di superare nuovamente come maggior produttore globale l’Afghanistan, dove il ritorno al potere dei talebani ha portato all’imposizione di un divieto sulla coltivazione del papavero da oppio.
L’aumento delle piantagioni è in gran parte una conseguenza della mancanza di alternative economiche. Molti agricoltori, spinti dalla povertà, sono stati costretti a riconvertire le proprie terre alla coltivazione del papavero da povero, mentre migliaia di sfollati accettano condizioni di lavoro estreme lavorando su terreni altrui nei luoghi dove hanno trovato rifugio. Tuttavia, la produzione di oppio non porta reali benefici economici alla popolazione locale: la coltivazione, che richiede una grande quantità di manodopera, serve soprattutto a finanziare sia la giunta militare sia le milizie etniche che la combattono, entrambe bisognose di fondi per acquistare armi e sostenere il conflitto.
I guadagni per i coltivatori restano minimi: secondo l’Onu, il prezzo pagato ai produttori si aggira intorno ai 300 dollari al chilogrammo, con un margine di profitto di appena il 10%, ben lontano dai valori del mercato internazionale. Inoltre, l’intensificarsi dei combattimenti nelle regioni più favorevoli alla coltivazione e il calo della domanda globale hanno portato a una contrazione della produzione negli ultimi due anni, anche se nel 2024 il settore ha mostrato segnali di ripresa.
Questa situazione ha ulteriormente aggravato le difficoltà economiche della popolazione birmana, coinvolta nella produzione per necessità. Tra i più vulnerabili ci sono i quasi quattro milioni di sfollati interni, secondo le stime dell’Ufficio delle Nazioni unite per il coordinamento degli affari umanitari (OCHA). Mentre il sostegno da parte di organizzazioni caritative internazionali è ridotto a un rivolo, ostacolato dal regime, dalla guerra in corso e da frontiere praticamente sigillate.
Fonte : Asia