Bambini che giocano, mangiano, dormono. E ancora, sorridono prima di entrare in classe o di partire per un campo scuola, festeggiano il compleanno, accarezzano il cane. Potremmo continuare all’infinito. È sufficiente scorrere sui social per imbattersi in foto o video di minori “immortalati” (o filmati) nelle attività più disparate. Scatti che, non di rado, vengono accompagnati dall’aggiunta di dettagli: dal nome del bambino alla sua età a dove vive o si reca per fare sport. Un fenomeno radicato anche tra chi non ha figli (ma nipoti sì) da meritare un appellativo: sharenting.
Dizionario alla mano, questo termine rappresenta la contrazione di “sharing” (condivisione) e “parenting” (essere genitori), ed è stato battezzato tale dall’Oxford English Dictionary. A cercare di mettere un po’ d’ordine è una ricerca, pubblicata sul Journal of Pediatrics dalla European Pediatrics Association, il cui primo autore è il professor Pietro Ferrara, responsabile del Gruppo di studio per i diritti del bambino della Società italiana di pediatria (nata nel 1898, di cui Ferrara è anche vicepresidente).
Dall’indagine emerge che i social media su cui finisce il maggior numero di contenuti sono Facebook (54 per cento), Instagram (16 per cento) e X (12 per cento). Un lavoro citato nello stesso studio della Sip sottolinea che, in media, l’81 per cento dei bambini residente nei paesi occidentali ha una qualche presenza in Rete prima di aver compiuto 2 anni (percentuale che in Europa è pari al 73 per cento, mentre negli Stati Uniti tocca quota 92 per cento).
Ma siamo sicuri che l’intento dei genitori (ad esempio, nel documentare la crescita dei figli oppure condividere con gli altri preoccupazioni per ricevere sostegno emotivo) sia sempre e solo “innocuo”? Today.it lo ha chiesto al criminologo forense Francesco Paolo Esposito, che va dritto al punto. “Nella maggior parte dei casi, la necessità di postare i figli online è un’urgenza dei genitori stessi. Un confronto a chi ha il figlio più carino, bravo, simpatico. Un’ossessione alimentata dall’ansia di conferme, dall’ego e dalla società dell’apparenza”. E i bambini? “Loro non hanno scelta né voce in capitolo – replica l’esperto -, sono burattini inconsapevoli del circo digitale”.
Per un pugno di like
Ma chi riguarda lo sharenting? Certamente gli influencer che monetizzano sui figli, pertanto declinano la loro famiglia in un brand (un esempio su tutti: l’ex coppia Fedez e Chiara Ferragni). Ma anche i baby influencer (dunque, i profili di minori gestiti da genitori) e noi “persone comuni”. Così, mentre la Francia vuole limitare lo sharenting – nel caso specifico: Bruno Studer, uno dei deputati di Renaissance, il partito del presidente Emmanuel Macron, ha presentato il disegno di legge approvato all’unanimità dall’Assemblea Nazionale Francese – anche nel nostro Paese il Garante per la protezione dei dati personali e l’Autorità garante per l’infanzia e l’adolescenza hanno proposto di estendere a questi casi la tutela già esistente contro il cyberbullismo, pertanto la Legge n. 71 del 29 maggio 2017 che permette ai minori di chiedere la rimozione di contenuti a loro riferiti.
Per contrastare lo sharenting e tutelare i minori, il Garante Privacy ha lanciato la campagna di comunicazione istituzionale “La sua privacy vale più di un like”. Invitando i genitori a riflettere e ad essere maggiormente consapevoli sulla protezione dei dati personali prima di postare l’ennesima foto (o rilasciare un nuovo video) del proprio figlio. “Ciò che viene pubblicato sui social o condiviso nelle chat può essere infatti catturato e riutilizzato da chiunque per scopi impropri, per attività illecite o di finire addirittura sui siti pedopornografici”, puntualizza l’Autorità garante.
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Sul lato oscuro dello sharenting, Francesco Paolo Esposito non ha dubbi: “Il tema abbraccia certamente la privacy, ma anche la sicurezza”. Le informazioni divulgate dai genitori possono essere usate da criminali, pedofili, truffatori, stalker. È sufficiente un nome, una scuola, un’abitudine quotidiana condivisa con leggerezza per trasformare un bambino in un bersaglio”. Ma parliamo solo di rischio nell’immediato? “Nel modo più assoluto – replica il criminologo forense -, il pericolo è anche in prospettiva: oggi un post carino, domani un problema lavorativo perché il capoufficio ha trovato un video imbarazzante postato anni prima dai genitori”.
Come limitare i pericoli
Aspettando che il vuoto normativo si colmi – anche se il Tribunale di Roma, già tempo addietro (ordinanza del 23 dicembre 2017, come riporta Altalex), ha stabilito che il giudice può sia ordinare la rimozione delle immagini dei figli ai genitori che ne abbiano fatto un uso distorto sia condannarli al pagamento di una somma proprio in favore dei minori – a riempirlo può essere il buon senso. “Un genitore non dovrebbe mai smettere di chiedersi: posterei in Rete l’indirizzo di casa o il numero di conto corrente di mio figlio? Allora perché mai dovrei pubblicare il suo volto, il nome della scuola che frequenta oppure gli hobby che coltiva?”, riprende Francesco Paolo Esposito.
E ancora – continua l’esperto – “è bene domandarsi: diffonderei mai la foto o il video di un amico o di un collega mentre piange, dorme o è in una situazione vulnerabile? Di contro, perché dovrei farlo con mia figlia?”. Al contempo, bisogna insegnare ai figli il valore della privacy attraverso l’esempio. “Un domani diremo loro di stare attenti a cosa pubblicano online, di proteggere la loro identità, di non condividere informazioni personali. Ma se oggi siamo noi i primi a non rispettarne privacy, con che credibilità potremmo farlo?”, puntualizza ancora il criminologo forense.
Quindi Francesco Paolo Esposito conclude: “Uno scatto pubblicato è una foto fuori controllo. Non importa se il profilo del genitore è privato, se lo scatto scompare dopo 24 ore, come in una storia su Instagram. Il web non dimentica. E oggi è impossibile sapere se quel post, che a chi pubblica appare del tutto innocente, possa mettere in difficoltà nel futuro il proprio figlio”.
Fonte : Today