Nel nostro Paese essere costrette a scegliere fra lavoro e maternità è ancora una realtà per molte donne. Se c’è chi abbandona la carriera dopo la gravidanza per l’impossibilità di conciliare lavoro e cura dei figli (quest’ultima ancora oggi in larga parte sulle spalle delle madri), chi rientra nel ruolo che ricopriva prima della gravidanza spesso deve affrontare un demansionamento. Lo raccontano le storie di tante neo mamme e professioniste che si sono dovute accontentare di part time forzati o di dare le dimissioni. Ma lo dicono anche i numeri.
Tra part time involontari e gap salariale
Nell’ultimo rapporto Asvis 2024 si evidenzia come, sul totale degli occupati part time, quello involontario colpisca il 15,6% delle donne a fronte del 5,1% dei colleghi maschi. La parità di genere sul luogo di lavoro in Italia nel 2023 è ancora un miraggio: ogni 100 uomini occupati ci sono 74,3 donne occupate. E poi, ogni 100 donne occupate senza figli, ce ne sono 73 con figli. Le politiche messe in atto fino a questo momento si sono rivelate inadeguate se non inesistenti: nello studio si cita ad esempio l’obiettivo del 33% di copertura degli asili nido entro il 2030, contenuto nel Piano strutturale di bilancio di medio termine 2025-2029, che rimane “ben distante dal 45% indicato dall’Unione europea, che non risulta proporzionato all’esigenza di stimolare l’occupazione femminile”. Se oggi il 31% delle donne nel mercato del lavoro ha un contratto part-time (rispetto al 7% degli uomini) questo in molti casi non corrisponde a una scelta volontaria, ma è la conseguenza di un’endemica mancanza di servizi di cura.
Il fenomeno delle dimissioni volontarie post genitorialità riguarda ancora principalmente le madri, al primo figlio, entro il suo primo anno di vita. Nel corso del 2022, come riporta il rapporto Le equilibriste di Save The Children, sono state effettuate complessivamente 61.391 convalide di dimissioni volontarie per genitori di figli in età 0-3 a livello nazionale, in crescita del 17,1% rispetto al 2021. Di queste 44.699 (ovvero il 72,8% del totale) riguardavano donne e 16.692 (27,2%) uomini. Sono quelle femminili ad essere maggiormente cresciute da un anno all’altro, e se le donne le motivano con la mancanza di servizi di cura adeguati, il 78,9% degli uomini ha invece dichiarato che la fine del rapporto di lavoro è dovuta a un cambio di azienda, mentre solo il 7,1% lo collega a esigenze di cura dei figli. Insomma, anche le motivazioni sono ben diverse e parlano ancora di un gap culturale importante dove si dà troppo spesso per scontato che a occuparsi dei figli debbano essere per forza le madri, mettendo da parte anni di sacrifici sul posto di lavoro: “Le madri che abbiamo intervistato lamentano nella stragrande maggioranza dei casi dei costi troppo elevati dei servizi per l’infanzia e pochi posti dove invece questi servizi esistono – spiega Antonella Inverno, responsabile ricerca, dati e politiche di Save The Children -. Il mercato del lavoro penalizza la donna quando nasce un figlio perché privilegia il padre che è ancora visto nel suo ruolo tradizionale, ovvero quello che ‘porta a casa lo stipendio’. Questo è poi è lo specchio delle differenze salariali perché se in una coppia qualcuno deve rinunciare al lavoro di solito è chi ha lo stipendio più basso, che frequentemente è la donna”. Questo si traduce anche in una maggiore incidenza di povertà nelle fasi successive della vita, perché un percorso lavorativo discontinuo porta a pensioni più basse, e a un conseguente meccanismo di subordinazione nei confronti del compagno/marito. E se questa relazione dovesse poi trasformarsi in violenza di genere, essere dipendente economicamente rende i percorsi di fuoriuscita dalla spirale di abuso molto più complessa, soprattutto con figli a carico.
Precarietà e mancata rete sociale
Miriam, mamma di Torino, si è licenziata dopo il secondo figlio perché “con la seconda gravidanza diventava ingestibile conciliare il lavoro e la famiglia. Le baby sitter mi chiedevano 10-11 euro l’ora e, di fronte al mio stipendio, ho lasciato stare”. Donatella, a Bari, si è sentita sola dopo il parto delle sue gemelle e quello che doveva essere un momento di gioia si è presto trasformato in un periodo di inquietudine per il futuro: “Ho chiesto aiuto alle istituzioni ma non mi hanno indirizzato da nessuna parte. Le bambine alle 12 escono dal nido e devo trovare per forza un lavoro che mi permetta di andarle a prendere”. Una sua concittadina, Valentina, ripete che, dopo aver lasciato il lavoro in seguito alla nascita dei suoi figli, non è più riuscita a rientrare nel mercato del lavoro: “Non dovrebbe essere un impedimento per una mamma avere dei figli. Io vorrei rientrare al lavoro”. Queste sono solo alcune delle storie raccolte da Save The Children che fotografano la realtà di donne con lavori precari che, nel momento in cui annunciano la gravidanza, vengono in modi diversi incentivate a lasciare il posto di lavoro. Nello studio si menzionano anche le difficoltà ulteriori di chi deve affrontare i bisogni di bambini con disabilità: “Qui i problemi aumentano esponenzialmente perché spesso manca una rete di supporto e devono provvedere a una serie di spostamenti per la cura dei figli che impediscono loro di rientrare nel mondo del lavoro” precisa Inverno. Nel racconto delle storie si fa anche un confronto con le situazioni negli altri paesi. In Francia, ad esempio, le strutture coprono l’orario lavorativo, come racconta Francesca.
Quali politiche funzionano?
Ci sono infatti paesi che hanno messo in atto politiche di aiuto alla genitorialità che stanno già dando i loro frutti, per rendere lavoro e maternità due mondi conciliabili: “Esistono due approcci differenti negli altri Paesi – prosegue Inverno –. O sono presenti politiche che sostengono la genitorialità, dando un periodo più lungo di maternità, dove le donne sono comunque tutelate e agevolate, oppure l’altro approccio punta all’uguaglianza dei ruoli, e vede congedi di paternità prolungati nel tempo. In Germania poi, ad esempio, l’asilo nido è un diritto soggettivo di ogni bambino, quindi si garantiscono i posti negli asili. Si tratta di dare una visione di lungo termine che le famiglie percepiscono come un aiuto sicuro anche negli anni a venire, aspetto che in Italia manca, con misura una tantum e bonus che un anno ci sono e uno no”.
In Germania, ad esempio, grazie ad alcune politiche messe in campo che riguardano, oltre ai posti nei servizi per l’infanzia, anche i congedi parentali, tra il 2007 e il 2011 l’occupazione delle madri con bambini sotto i tre anni è aumentata passando dal 26% al 31,5%. Guardando ai nostri confini la provincia di Trento ha messo in campo il family audit, che potrebbe essere un aiuto importante anche altrove: “Questa misura prevede dei criteri di premialità per le aziende e amministrazioni che favoriscono misure di conciliazione per la famiglia, non solo per le donne, come meccanismi di uguaglianza di genere, o come la retribuzione paritaria e gli stessi avanzamenti di carriera, così come misure che riguardano gli asili nido aziendali, flessibilità sul lavoro in entrata. Tutto questo può favorire un’organizzazione più rispondente a quelli che sono i bisogni delle nuove famiglie in Italia”.
Fonte : Wired