Profondo Rosso, la storia del film cult di Dario Argento

Profondo Rosso dopo mezzo secolo continua ad essere un punto di riferimento assoluto per l’horror, certamente non solo quello italiano, di cui rappresenta ad ogni modo una svolta epocale. Dario Argento in quel decennio così complicato e febbrile, ci regalò un’opera capace di rendere il concetto di orrore e soprattutto terrore qualcosa di diverso, un racconto motore di un’innovazione con pochi pari nella storia.

Un film che rivoluziona l’orrore sul grande schermo

Profondo Rosso nella mente di Dario Argento si forma mentre sta finendo il film più strano della sua carriera: Le cinque giornate, malinconica commedia con protagonista Adriano Celentano. Argento vuole creare qualcosa di nuovo e lo fa concependo una sceneggiatura dove realizzerà il superamento del giallo che tanta fortuna gli aveva donato, con gli omaggi ad Hitchcock, a ciò che era il genere negli anni ‘40 e ’50. Sarà però inestimabile l’aiuto di Bernardino Zapponi, scrittore e sceneggiatore che aveva già dimostrato di essere motore di novità e cambiamento al fianco di Dino Risi, Federico Fellini e Mauro Bolognini. Profondo Rosso quando esce in sala, quel 7 marzo 1975, lascia pubblico e critica di stucco, perché Dario Argento sovverte tutti i supposti topoi del genere, a cominciare dalla scelta di un realismo che dall’ambientazione, ai personaggi, alle dinamiche, infine si deposita anche della dimensione visiva, alla violenza per come viene mostrata.

Opera molto personale per Dario Argento, alle prese con un periodo molto difficile dal punto di vista affettivo e di definizione del suo percorso da regista, Profondo Rosso ha una narrazione dal ritmo irregolare, sincopato, con una volontà di ingannare in continuazione il pubblico dal primo all’ultimo minuto. Ma soprattutto, Profondo Rosso segnerà l’abbraccio definitivo da parte di Argento per quell’horror dalla composizione atipica, che da lui avrà proprio a partire da questo film una delle massime espressioni di contaminazione e superamento delle barriere, in virtù di una volontà di scioccare e atterrire lo spettatore senza dare punti di riferimento. A simboleggiarlo fin dall’inizio quel quadro misterioso, che appare e poi scompare, il magnifico totem supremo dell’inganno ordito da Argento, della sua tagliente doppiezza di narratore. Poi c’è la violenza, una violenza estrema, tra decapitazioni, acqua bollente, coltellate… oggetti quotidiani, nulla di soprannaturale, con un impercettibile dark humor che si palesa.

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A produrla la Titanus, che riporterà sullo schermo l’inquietante racconto che aveva come protagonista Jennifer Connelly

Profondo Rosso fin dall’inizio è un racconto che pure se apparentemente bilanciato, logico, nelle mani di Dario Argento diventa una sorta di incubo, un viaggio allucinato dove la morte della sensitiva Helga Ulmann (Macha Méri), il coinvolgimento in quanto testimone del jazzista Marcus Daly (David Hemmings), ci portano dentro una falsa realtà, una falsa città cucita con i pezzi di Roma, Perugia, Torino. Argento vuole spaesare lo spettatore, sovvertire i canoni mostrandoci un racconto dove non è l’ignoto a dominare, ma l’impossibilità di sfuggire alla sua volontà, alla sua visione, ad una soggettiva imperante, dove la logica è solo di facciata, in realtà è sostanzialmente assente. Se la trilogia degli animali aveva sancito un rinnovamento totale del genere giallo e thriller, paragonabile solo a ciò che Sergio Leone e Sergio Corbucci avevano impresso al western, il grande merito di Argento è quello di capire che l’horror è il nuovo protagonista sul grande schermo.

Metafora di una società che si sta trasformando, in cui i “valori tradizionali” non funzionano più e dove la violenza è ormai imperante e dove la conflittualità si manifesta in modi inediti. Non un caso che solo l’anno prima sia uscito quel Non aprite quella porta di Tobe Hopper, che sancisce la nascita dello slasher come nuova variante del genere. Profondo Rosso inaugura un percorso differente ma attinente senza dubbio, con una violenza che è sì raccapricciante, ma ornata di simbolismi profondi. Lo si vede per esempio in quella terrificante bambola (simbolo che Argento recupera dal cinema del passato), nel motivetto che anticipa diverse morti, nel modo in cui sangue, membra distrutte, sono in realtà macabri indizi per noi e per Marcus, diventato giocoforza detective. Al suo fianco la giornalista Gianna (Daria Nicolodi), altra creatura femminile quasi spettrale, in un racconto dove si passa dalla vita alla (violentissima) morte dannatamente in fretta e senza scampo.

Tra jazz e metafore sociali, orrore e legacy

Profondo Rosso si nutre di una regia possente, allucinata, arma perfetta nelle mani di Argento per seminare false piste, false rivelazioni, mentre verità e leggenda si uniscono, mentre finiamo in quella villa, dove Argento distrugge il concetto di focolare domestico. La famiglia, pietra angolare della società italiana tradizionale, viene disgregata dalle confessioni del disturbato Carlo (Gabriele Lavia), amico di Marcus, da una catena di omicidi che riconducono alla madre di Carlo, che ha il volto dell’ex diva del muto Clara Calamai. Non è un caso. L’Italia degli anni ‘70 ha un cuore violento, la Generazione del ‘68 ha rifiutato gli ideali di vita borghesi, poi è venuta l’epoca della Tensione, un gorgo dentro cui è difficile trovare una verità, che come per Marcus, appare ogni volta quella sbagliata. La stessa violenza in quegli anni cambia faccia, diventa domestica, con quella bambola mostruosa, e con madri assassine, figli disturbati. C’è un passato di peccati non solo non seppellito, ma che diventa un macabro mausoleo.

Fonte : Wired