Ma che bella giornata di sole

L’altro giorno mia moglie mi ha detto che è quando si arriva a richio-pelle che si raggiunge l’illuminazione, o almeno se ne vedono delle belle.

Tra l’essere a prendere un gelato con tua figlia, in piena forma, e il non essere in grado di alzarti da una barella per una polmonite batterica fulminante possono passare poche ore. Che diventano sedici, su quella barella, in mezzo a decine di barelle come la tua piovute in mezzo a corridoi, fra qualche separé di fortuna, con persone semisvenute come te e sparuti operatori sanitari che provano a tenere il conto.

Magari hai il culo di avere un’amica che fa l’infermiera da un’altra parte ma ti passa a trovare, ti prende le mani e ti guarda in faccia capendo che ha di fronte uno zombo, così agguanta un misuratore, scopre che hai 40 / 70 di pressione e richiama chi di dovere a riportarti al di qua del Valhalla.

Di lì in poi percepisci solo che la situazione è tosta, lo percepisci da quanto si stanno preoccupando gli altri visto che tu sei troppo fuori per realizzare bene, troppo concentrato sulla routine del gioco dell’ospedale. Quando ti danno un letto, speri che passi un po’ il dolore lancinante alla schiena che ti blocca il respiro e ti concentri sui fondamentali: all’alba il prelievo, lavarsi, le medicine, la colazione, il pranzo, la cena, le flebo coi farmaci, i liquidi, le misurazioni della pressione, della febbre, della saturazione dell’ossigeno, il paracetamolo per la febbre e il dolore, l’aerosol, l’ossigeno e il prelievo arterioso “che però è un po’ fastidioso”.

In ospedale si ribalta la piramide, contano le cose piccole come il sorriso di Vanessa quando entra dalla porta alle 12 e 45 e un abbraccio un po’ più lungo quando va via, i messaggi di Leonida e Luna, della mamma, di chi sa e di chi non dovrebbe saper nulla, il sapore del the al latte che Mara ti porta al mattino, la risata che ti fa fare Luca al telefono, le attenzioni delle infermiere e degli oss, un tramonto rubato che profuma già di primavera, i misteriosi traffici con le bottiglie di plastica del compagno di stanza che non fanno dormire nessuno ma che diventano motivo di complicità tra gli altri, il mitico vicino di letto di destra dall’occhio arzillo di cui, appena Vanessa esce, il figlio traduce dal romagnolo il commento ridendo: “Va via una, entra un’altra vamolà!… La tua compagna è rientrata con gli occhiali, mio babbo non l’aveva riconosciuta…”; Silvia che arriva a casa un’ora più tardi per accompagnarmi, nel sole abbagliante.

Qua non ci facciamo mancar niente quindi nel mio reparto-accampamento ci sono anche i lavori. Dunque operai, dalle 8 e 30 del mattino di fronte alla porta della nostra camera che urlano, smadonnano, cantano.

Così come ho preso l’abitudine di non mettere le cuffie per coprire i rumori molesti ma di provare ad assecondarli, lì ho ascoltati e ho realizzato che sono tutti romani e pure gagliardi.

L’altro giorno, prima di rischiare di ammazzarne uno che aveva piazzato la scala dieci centimetri fuori dal bagno, ho orecchiato la canzone che cantava:

“E la chiamano Liberazione questa giornata senza morti… Questo profumo di limoni dalle finestre aperte…”

Quello che succede fuori, la roba forte per gente in salute che si fa di Facebook e giornali vari, qua arriva come un fastidioso raffreddore.

E invece dopo una vera botta il famoso “qui e ora” di mille meditazioni è a fuoco: le persone che amo, le cose che contano, il mio paese che si chiama Europa, una bella giornata di sole detta anche Liberazione.

Fonte : Today