Technicolor, ascesa e caduta dell’azienda che ha fatto la storia del cinema

Chiunque sia anche solo vagamente appassionato di cinema d’antan avrà visto almeno una volta in vita sua il logo della Technicolor. Si tratta di un processo di colorazione e anche dell’azienda che l’ha creato e sviluppato per oltre un secolo. Le prime sperimentazioni per superare il bianco e nero con questa tecnologia furono sviluppate a partire dal 1916, con il primo film muto a colori uscito nel 1917, The Gulf Between (poi però andato perduto). Nei vari decenni, con la definizione di varie tecniche chiamate “Process”, l’arte si affinò e il metodo di colorazione delle pellicole interessò vere e proprie pietre miliari del cinema come Biancaneve di Disney del 1937, Il mago di Oz e Via col vento del 1939, Pinocchio del 1940. Nei decenni successivi Technicolor divenne un gigante della cinematografia che, con l’avanzare della tecnologia, si espanse agli effetti speciali e alla post-produzione in genere. Oggi, però, quel colosso che ha fatto la storia della settima arte si sta dissolvendo.

Technicolor, la storia

Fondata da due laureati del Mit (Massachussets Institute of Technology), Herbert Kalmus e Daniel Frost Comstock, l’azienda era cresciuta negli anni fino a diventare una vera e propria multinazionale, passata di mano diverse volte soprattutto a partire dagli anni Ottanta e recentemente con base a Parigi.

Il nuovo assetto societario era denominato Technicolor Creative Studios (dal 2024 Technicolor Group), a sua volta diviso in quattro unità operative: Moving picture company (Mpc) dedicata a effetti VFX e animazione, che di recente ha lavorato anche al Lion King Disney del 2019; The mill, specializzato in animazioni e tecnologie creative per la pubblicità e il marketing; Mikros animation, che si occupa di animazione (di recente per esempio nell’ultimo film di SpongeBob e nella serie Star Trek: Prodigy); e infine Technicolor games, dedicata all’animazione e agli effetti speciali per i videogiochi (tra i più recenti WWE 2K22 e Tom Clancy’s Rainbow Six Extraction). Già tra il 2021 e il 2022 i servizi dvd e home video di Technicolor erano stati scorporati e venduti in una nuova società rinominata Vantiva.

Non tutto è come sembra

A guardare il profilo X/Twitter di Technicolor sembra di trovarsi di fronte a una realtà vivace e dall’attività alacre: i post più recenti anticipano l’arrivo nelle sale di Biancaneve e Lilo & Stitch live-action, mentre si celebrano successi degli ultimi mesi come Emilia Pérez, Mufasa, Thelma The Unicorn e alcuni spot del Super Bowl. Tra i prossimi progetti in ballo anche l’ultimo capitolo di Mission: Impossible e la seconda stagione di Mercoledì per Netflix. In realtà gli insider parlano di difficoltà evidenti che si protraggono ormai da un paio di anni, con un mercato sempre più competitivo, un abbassamento dei compensi e la difficoltà di coordinarsi nei vari paesi anche a fronte di richieste di aumenti e sindacalizzazione. I problemi principali, però, a quanto sembra derivano da una gestione finanziaria non sempre lungimirante e da una difficoltà oggettiva di trovare compratori.

La questione dell’indotto cinematografico

Nonostante tutto, un’implosione così repentina se l’aspettavano in pochi: a fine febbraio la divisione britannica di Technicolor è stata messa in amministrazione volontaria con il licenziamento della maggior parte dei 400 dipendenti; anche la sede francese è stata messa in amministrazione controllata, e allo stesso destino sono andati incontro gli uffici in India e Usa. A inizio marzo la divisione Technicolor Games è stata venduta a TransPerfect, azienda globale di traduzione e intelligenza artificiale. Il futuro di Mpc, The Mill e Mikros rimane invece ancora indefinito. In un mercato cinematografico globale sempre più delicato dal punto di vista della sostenibilità finanziaria, ci si pone sempre più il problema non solo del destino dei grandi studios, ma anche della miriade di aziende complementari, fornitrici e sussidiarie. Anche di quelle che, come Technicolor, hanno fatto la storia del cinema.

Fonte : Wired