Ci ha lasciato Bruno Pizzul: avrebbe festeggiato 87 anni tra pochi giorni e non ripeterò quello che leggerete ovunque con e senza l’ausilio di coccodrilli e intelligenza artificiale. Tutti quelli che amano almeno un pochino il calcio e lo sport sanno chi era e cosa ha rappresentato per decine, centinaia di persone che hanno in qualche modo seguito il suo esempio e per migliaia che avrebbero voluto farlo e non ci sono riusciti. Ha raccontato centinaia di partite, quattro Mondiali, cinque Europei chiudendo la sua carriera nel 2002 per dedicarsi alla pensione e a pochi eventi.
Un amico
Ho una piccola storia da raccontare su di lui. 29 maggio 1985. Io avevo vent’anni, facevo già il telecronista. Lavoravo per una piccola rete televisiva a Genova, la mia città. Non lavoravo a Marassi: ma a Borzoli, e il clou era il derby Sestrese-Sampierdarenese. Calcio dilettanti. Genoa e Sampdoria sarebbero arrivati qualche anno dopo. Ero letteralmente conquistato da una professione che non era ancora un lavoro semplicemente perché non mi pagavano. Ma speravo lo diventasse. Ascoltavo tutto quello che passava in tv e cercavo di imparare con mezzi limitati, che non sono certo quelli di oggi. Adoravo collegarmi alla radio a onde lunghe di papà per ascoltare le radiocronache inglesi. E il mio punto di riferimento erano quattro voci italiane più di ogni altra. Tre delle quali radiofoniche: Nando Martellini, l’autorevolezza e il garbo di un gentleman; Alfredo Provenzali, l’istrionico e incontenibile narratore che sapeva sempre come rendere interessante la partita più noiosa e inutile; Sandro Ciotti, un ritmo a tratti suadente e a volte frenetico con la sua voce cartavetrata e incontenibile. E poi lui, Bruno Pizzul. La mia voce televisiva preferita. Pizzul aveva un modo di porsi nei confronti del pubblico che ricordava quello di un amico che aveva avuto il biglietto al posto tuo e ti raccontava tutto, in modo preciso, colorato, brillante, mai banale e soprattutto elegante. Parole semplici, comprensibili, uno stile sobrio, in un italiano puro e senza inutili eccessi. Una cura nella ricerca delle parole degna di un linguista, una passione per il fatto sportivo che lo rendeva garante assoluto di imparzialità e di autorevolezza. Con alcuni slanci di qualità assoluta.
La finale di Champions all’Heysel
29 maggio 1985, dicevo, finale di Champions League all’Heysel. Seguo la partita con mio papà sulla poltrona in salotto davanti al Saba a colori che sembrava un armadio. Ciò che le immagini mostrano è drammatico. E ciò che Pizzul racconta è sempre solido, autorevole, giornalisticamente inattaccabile. “No, scusate, capisco che è sconvolgente ma io devo fare il mio lavoro e questa cosa la devo dire: ci sono 36 morti”. Poco dopo conferma: “Ho qui accanto a me il delegato Uefa che mi conferma che ci sono stati 36 morti e che, cosa che mi lascia sconcertato, la partita si giocherà”. Pizzul racconterà quella partita – la prima Coppa Campioni vinta dalla Juve – in un clima surreale e con la voce di chi vorrebbe essere da tutt’altra parte. Prende atto del gol partita di Platini su rigore senza nessun entusiasmo. Striglia i tifosi della Juve che espongono lo striscione Reds Animals dicendo “…questa se la potevano risparmiare”. Sul suo racconto di una notte drammatica sono stati scritti libri e numerose tesi di laurea. Una dimostrazione di professionalità che rappresenta uno dei momenti più alti dell’informazione sportiva del nostro paese e forse del mondo.
“Sei quello di Genova”
29 gennaio 1995. A Marassi c’è Genoa-Milan. Dallo studiolo ricavato sotto il tetto della tribuna del Ferraris in collegamento con Antenna 13, mi trovo a raccontare una delle domeniche più tragiche e sconvolgenti cui abbia mai assistito. In una rissa fuori dallo stadio alcuni tifosi del Milan hanno aggredito un gruppo di genoani. Finisce a coltellate. Un ragazzo resta a terra. Morirà poco dopo al San Martino accoltellato al petto: si chiamava Vincendo ‘Claudio’ Spagnolo. I tifosi del Genoa non accettano che la partita si giochi e fanno di tutto per sospenderla. Fuori dallo stadio esplodono scontri gravissimi e drammatici: parcheggio devastato, cariche della polizia e dei tifosi che proseguono per quasi cinque ore. Dopo il primo tempo le squadre non rientrano. Dentro lo stadio – chiusi nella curvetta all’angolo della Sud – ci sono i tifosi del Milan. Tra loro c’è anche l’assassino del tifoso ucciso. Tutto il resto del Ferraris è deserto. L’unico che resta in onda, collegato in diretta, filmando quello che accade, sono io. La diretta prosegue per quasi quattro ore: sono l’unico che trasmette e documenta tutto. Qualcuno ha la bella idea di avvertire mia madre, a casa, che se continuo i miei collegamenti sono un giornalista morto. Alle 18 ci fanno staccare tutto. Prendo la mia moto, integra tra macchine date alla fiamme, e vado in studio per un’altra diretta. Torno a casa pensando se è davvero questo il mestiere che dovrei fare. Qualche mese dopo, a Milano per una conferenza stampa e un incontro conviviale incontro lui, Bruno Pizzul. Un uomo massiccio, altissimo dal sorriso bonario e accogliente proprio come le sue telecronache. Ci presentano. Sentirlo dire… “Ah, sei quello di Genova, sei stato bravo e coraggioso” con quel suo vocione – per me – ancora oggi vale quanto un 110 e lode. Chiacchieriamo per una mezz’oretta davanti a un bicchiere di rosso e un assaggino di risotto. Gli affetto mezzo salame e gli chiedo un consiglio. Mi dice: “Parla il giusto, racconta quello che vedi. Il telecronista è come l’arbitro. Non fa il protagonista e non è mai al centro dell’attenzione. Divertiti, ma non troppo”. Mi firma un libro che avevo con me e che conservo ancora gelosamente scrivendomi ‘buon lavoro, Bruno’.
Un calcio che rimpiangiamo
Da queste righe che mi rendo conto non sono sufficienti a comprendere la grandezza del personaggio che ha fatto la storia della narrativa del calcio del nostro paese, spero si intuisca quanto umano, brillante, ironico, divertente sia stato Bruno Pizzul. Pur essendo anche estremamente serio, scrupoloso e competente. Un uomo che almeno un paio di generazioni di commentatori sportivi giustamente chiamavano deferentemente maestro. Senza retorica, senza frasi a effetto, solo con il peso delle parole giuste. Nell’epoca dei social e del sembrare che pesa più dell’essere un uomo del genere resta un esempio di straordinaria grandezza. Soprattutto oggi, in un calcio dominato da decine di addetti stampa e da una comunicazione ignorante e invasiva, tra influencer, agenti e amici di…, dove la narrativa semplice di una partita di calcio dovrebbe l’unica cosa che conta e non la calcola nessuno. Ecco il calcio che rimpiangiamo, insieme alla grandezza umana e culturale di poche persone il cui esempio vorremmo disperatamente riportare al centro della scena. Molto al di sopra di chi fa molte chiacchiere e non ha nemmeno il distintivo. Perché non sa cosa dire. Né come.
Fonte : Today