C’era qualcosa di simile al musicista jazz in lui, ma mai dimenticò di essere al servizio del pubblico e del calcio. Le sue telecronache diventarono bene o male contenitori di una sorta di mondo parallelo, con cui il calcio diventava un concerto, un’opera artistica. “Tutto molto bello”, “sventola da fuori”, “Partiti!”, “passaggio a perpendicolo”, “fa la barba al palo”, sono solo alcuni degli esempi attraverso i quali Bruno Pizzul seppe donare una nuova idea di narrazione sportiva in diretta. Un ruolo che mantenne anche quando le televisioni private cominciarono a fare concorrenza alla Rai, quando altri volti, più giovani, cominciarono a proporre qualcosa di molto più connesso alla tradizione della telecronaca sudamericana o statunitense: e, quindi, via di voli pindarici, urla, con quella prosopopea e retorica insopportabile che alla fine negli ultimi anni ha preso il sopravvento rispetto a ciò di cui Pizzul è sempre stato il simbolo: la capacità di far comprendere ciò che stava accadendo, abbracciando un simbolismo, che lo rese a volte quasi una sorta di Ungaretti del microfono sportivo.
Bruno Pizzul: oltre lo sport, il simbolo di un mondo che è scomparso
Pizzul affrontò anche momenti molto difficili, su tutti la tragica finale di Coppa dei Campioni tra Juventus e Liverpool, con il massacro dell’Heysel, un frangente in cui fu costretto comunque a continuare la diretta in ossequio al dovere di cronista, pur tra le lacrime di una tragedia immane: motivo per il quale fu anche ingiustamente criticato da alcuni.
Nel corso degli anni, Bruno Pizzul era diventato quasi una sorta di maestro Yoda del giornalismo. Tanti decisero di provare ad imitarne successo e iconicità: la sua voce fu quella che ci accompagnò nell’amaro mondiale di Messico 86, dove Diego Armando Maradona diventa un mito e i ragazzi del “Vecio” Bearzot tornarono umani. Fu sempre la sua voce ad accompagnarci nelle “Notti Magiche” di Italia ’90, a descriverci la serpentina di Roberto Baggio, Totò Schillaci che diventava eroe nazionale ma soprattutto gli amarissimi rigori contro l’Argentina del Pibe de oro. A Bruno Pizzul toccò in effetti l’onere amaro di descriverci ben tre Mondiali persi dagli 11 metri. “Il Campionato del mondo è finito, lo vince il Brasile, ai calci di rigore”, in quel giorno a Pasadena è ancora oggi una cicatrice che vola sul suo tono professionale ma malinconico. Ma era stato anche la voce che gridò il nome del Divin Codino quando ci fece scendere dall’aereo contro la Nigeria, che ci accompagnò poi nella breve illusione francese quattro anni dopo. Grande amarezza anche negli europei del 2000, quel “ed è finita come peggio non poteva”: che accompagna il golden gol di David Trezeguet contro i ragazzi di Zoff è un altro monumento a come si narra una sconfitta sportiva.
Due anni dopo forse ebbe l’amarezza più grande, commentare in diretta il furto perpetrato da Byron Moreno ai campionati del mondo in Corea del 2002 ai danni dei ragazzi di Trapattoni, nella notte più beffarda e amara. Lascerà le telecronache il 21 agosto 2002, in un mesto Italia Slovenia: sarà Marco Civoli a parlarci del “Cielo azzurro sopra Berlino” quattro anni dopo. Col senno di poi forse Bruno se lo sarebbe pure meritato, di commentare un Mondiale vinto.
Pizzul si era cimentato in altri sport al microfono: ma, anche dopo il ritiro, non aveva smesso di parlare di calcio, sia per La 7 che per altre piccole emittenti con cui cercò di contrastare il dominio delle Tv private nate all’estero. Oggi che se n’è andato, lo ricordiamo come un professionista che ha saputo cambiare un mestiere, senza però smettere di farlo concepire come un servizio pubblico. Anche quando fu presente a talk show o trasmissioni sportive, o quando dimostrò grande autoironia con qualche figurazione cinematografica, Bruno Pizzul non ha mai smesso di trasmettere profonda umiltà, equilibrio, l’idea di una saggezza distante dalla vanità, quella che oggi tanti suoi colleghi invece inseguono con fanatismo. Con lui oggi, a tre giorni dal suo ottantasettesimo compleanno, se ne va un grande amico degli italiani, un uomo che ci ha accompagnato attraverso la trasformazione non solo del calcio – da evento nazional popolare ad industria dell’intrattenimento -, ma soprattutto dal XX al XXI secolo. Non si può che dire che lui sia stato uno dei quei motivi per cui spesso rimpiangiamo il primo e mal sopportiamo il secondo.
Fonte : Wired