Paradise, le riflessioni sulla serie di Dan Fogelman dopo il finale di stagione

Sta proprio nella sua metafora politica lo spessore della serie, che vanta come protagonista l’ottimo Sterling K. Brown. Smessi i panni sensibili e intellettuali di Randall, si trasforma qui in una sorta di Denzel Washington versione Equalizer. È Xavier Collins, il capo sicurezza del Presidente (James Marsden), tutto precipita poco prima che quest’ultimo venga assassinato. Più dell’indagine e della caccia al colpevole, colpisce la narrazione della costruzione a tavolino della città ideale, propagandata come “la” salvezza, quando in realtà è solo un’enclave di privilegiati e prescelti, tenuti adeguatamente all’oscuro di tutto da un potere spregiudicato che bada solo ai propri comodi.

Mette i brividi per la sua verosimiglianza l’episodio in cui si assiste alla corsa all’aereo della salvezza, lì dove – alla Titanic – c’è chi farebbe qualsiasi cosa pur di mettersi in salvo e chi sceglie di non affannarsi affatto. È feroce Fogelman nel ritrarre come i potenti siano attenti, anche nel momento estremo in cui l’umanità sta per estinguersi, soltanto a mantenere saldo il proprio potere. Macropotere, nel caso delle potenze mondiali che fanno a gara per sganciarsi contro le bombe atomiche, micropotere nel caso delle persone che hanno un posto garantito sull’aereo della salvezza e non pensano a portare con sé neanche mezzo amico/vicino/sconosciuto/clandestino. È la millenaria legge del “mors tua vita mea” che governa il mondo, sembra volerci ricordare Paradise, anche quando le dichiarazioni ufficiali dicono tutt’altro. La serie esce con un tempismo perfetto, nel momento di ascesa al potere dei plutocrati, simboleggiati nella serie da una spietata Julianne Nicholson, nei panni di tale Sinatra.

Fonte : Wired