L’inquinamento delle navi è un problema per i mari italiani

L’inquinamento delle navi che solcano i mari dell’Ue continua ad avvelenarne le acque nonostante gli sforzi e le azioni per contrastarlo. A rivelarlo una relazione pubblicata martedì 4 marzo dalla Corte dei conti europea che aveva il compito di indagare l’applicazione delle norme comunitarie in materia nei 22 stati membri. Applicazione che, per inciso, è risultata “ben lungi dall’essere soddisfacente“. E l’Italia? Non brilla per trasparenza e comunicazione dei suoi dati. Ma andiamo con ordine.

L’obiettivo dell’inquinamento zero al 2030

Quali sono le fonti di inquinamento marino? L’Ue punta a debellarlo dalle acque entro il 2030 ma le navi mercantili, da crociera, da pesca, i traghetti passeggeri e le imbarcazioni da diporto allontanano l’obiettivo. Questi mezzi possono inquinare per i rifiuti che disperdono nell’ecosistema acquatico (dai rifiuti di plastica all’attrezzatura da pesca abbandonata), ma anche attraverso il petrolio e i metalli pesanti, o tramite sostanze pericolose che possono arrivare da sversamenti accidentali o scarichi operativi, scarico di acque reflue e “grigie” (pozzi, docce e lavatrici), rilascio di sostanze da container che si disperdono in mare perché stoccati male o per situazioni meteo avverse, e persino dalla demolizione delle navi. Su quest’ultimo punto la Corte non fa sconti ed evidenzia come sia ancora possibile per gli armatori eludere l’obbligo di riciclo dei materiali delle navi scegliendo ad esempio una bandiera di uno Stato non-Ue prima di procedere con lo smantellamento. Nel 2022 una nave su sette nel mondo batteva bandiera di uno Stato dell’Ue, ma la cifra scendeva del 50 % per il parco navi a fine ciclo di vita.

Ma perché i relitti sono inquinanti? Gli scienziati della fondazione MARE hanno stimato che almeno 100 degli 8000-10 000 relitti nel Mar Baltico non sono sicuri, perché contengono combustibile o sostanze pericolose e perché si trovano a meno di 10 miglia nautiche dalla costa. In merito invece alle norme Ue sui container dispersi in mare queste sono, a detta dei relatori, “tutt’altro che a tenuta stagna”. Il motivo è semplice: non c’è garanzia che tutte le perdite vengano effettivamente dichiarate, oltre al fatto che in generale quelli recuperati sono una piccolissima parte. Eppure, a livello europeo, la direttiva 2002/59/CE impone agli Stati membri di far sì che il comandante di una nave “notifichi subito i container persi al pertinente Stato costiero”. Ma nella pratica questo non avviene quasi mai. Per dare un’idea più precisa dei numeri: le stime delle autorità francesi sottolineano che “dei 1200 container persi nelle zone dell’Atlantico e della Manica/Mare del Nord tra il 2003 e il 2014, ne sono stati recuperati solo 49, ovvero circa il 4%”.

Scarso utilizzo degli strumenti forniti dall’Ue

Dall’indagine della Corte dei conti resa nota martedì emerge poi che gli Stati membri utilizzano poco (e male) gli strumenti messi a loro disposizione per contrastare l’inquinamento marino. Tra questi, ad esempio, una rete di navi pronte a intervenire in caso di sversamenti di idrocarburi (i paesi sembrano preferire sempre i propri mezzi) o i droni per il rilevamento degli inquinanti. Ma non solo. Esiste un sistema europeo di sorveglianza satellitare per il rilevamento di chiazze di idrocarburi (CleanSeaNet), che permette d’individuare rapidamente delle possibili fonti di inquinamento.

L’EMSA (European maritime safety agency) per il periodo 2022-2023 ha intercettato 7731 possibili sversamenti in mare, la maggior parte in tre paesi: Spagna (1462), Grecia (1367) e Italia (1188). I paesi membri si sono attivati a malapena nella metà dei casi, confermando poi in seguito la segnalazione d’inquinamento solo nel 7% dei casi, soprattutto a causa “del tempo trascorso tra l’acquisizione dell’immagine satellitare e l’effettivo controllo dell’inquinamento. Insomma, un mezzo rapido per le segnalazioni che non va alla stessa velocità di quello poi dei paesi in questione. La percentuale di segnalazioni di inquinamento di CleanSeaNet confermate dagli Stati membri varia molto da uno Stato all’altro. Se Danimarca e Germania hanno confermato l’inquinamento per il 30 % o più delle segnalazioni ricevute, l’Italia lo ha fatto molto raramente, confermando solo il 3%, nonostante abbia messo in campo un gran numero di controlli in loco da parte delle sue autorità (1.046 su un totale di 1.188). Un dato che ad esempio in Germania e Danimarca sfiora il 30%, a fronte di controlli sul 90% delle segnalazioni per i tedeschi e del 70% per i danesi. Secondo la Corte dei conti le probabilità di conferma dell’inquinamento dipendono molto dall’intervallo tra l’acquisizione dell’immagine satellitare ed il controllo dell’inquinamento da parte di uno Stato membro.

Mancate ispezioni sulle navi: l’Italia non comunica i dati

Secondo la Corte inoltre le autorità degli Stati membri non svolgono sufficienti ispezioni preventive delle navi nonostante sia obbligatorio. Chi scarica illegalmente in mare sostanze inquinanti raramente è soggetto a sanzioni efficaci o dissuasive e l’azione penale è rara. Eppure anche qui le leggi ci sono. La direttiva Ipr dal 2022 impone agli Stati membri di ispezionare il 15% di tutte le navi che fanno scalo nei loro porti. Attraverso delle ispezioni viene così verificato il rispetto delle norme in materia di gestione dei rifiuti oltre all’uso di impianti portuali di raccolta per lo smaltimento dei rifiuti. L’obiettivo è stato rispettato da soli sei stati membri: cinque non hanno raggiunto i parametri, cinque non hanno raggiunto nemmeno la metà dell’obiettivo e due non hanno nemmeno fornito i dati. Ed è l’Italia (oltre alla Svezia) a non aver comunicato questi numeri. Inoltre, pochi Stati membri segnalano violazioni relative al recupero di attrezzatura da pesca abbandonata, persa o dismessa.

Fonte : Wired