Il Gattopardo sbarca su Netflix, dopo una massiccia campagna pubblicitaria che però non ha mai fugato dubbi, perplessità e interrogativi. Tutti giustificati, perché la serie diretta da Tom Shankland, Giuseppe Capotondi e Laura Luchetti, è un prodotto commerciale nel senso più blando e modaiolo del termine che non rende minimamente giustizia all’opera di Giuseppe Tomasi di Lampedusa. Ma questa, forse, era una scommessa davvero facile da vincere.
Una serie condizionata da un eccesso di modernità
Una serie che rinuncia alla profondità del romanzo originale Il Gattopardo come noto è tratto dal capolavoro di Giuseppe Tomasi di Lampedusa, che a suo tempo il grande Luchino Visconti fece diventare uno dei lungometraggi più importanti della storia del nostro cinema, capace di influenzare registi del calibro di Martin Scorsese, Sidney Pollack e Francis Ford Coppola. Netflix quando si confronta con prodotti di questo tipo, si è capito da tempo che è un po’ un 50 e 50: o andrà molto bene o andrà molto male. Il Gattopardo appartiene purtroppo alla seconda categoria. Dal primo all’ultimo minuto si rivela uno dei prodotti più deludenti, prevedibili e privi di profondità che la piattaforma ci abbia offerto recentemente. Ma andiamo con ordine. Siamo nella Sicilia che a breve verrà travolta dalla ribellione, dalla spedizioni dei Mille di Garibaldi. Al centro lui, Don Fabrizio Corbera (Kim Rossi Stuart).
Questi è il Principe di Salina, e come molti altri della nobiltà dell’isola, non riesce ancora a inquadrare esattamente lo stravolgimento in atto nell’isola. Chi invece lo abbraccia con entusiasmo è suo nipote, il carismatico Tancredi (Saul Nanni), dotato di spirito indocile e dominato da quella tipica volontà giovanile di cambiare il mondo. Su di lui ha posato gli occhi da tempo la dolce e sensibile figlia del Principe, Concetta (Benedetta Porcaroli), mentre il resto della famiglia, su tutti la consorte del Principe, Maria Stella (Astrid Meloni), lo guarda con sospetto e ostilità, la stessa che riserva alle camicie rosse. In breve, Il Gattopardo diventerà una cronaca delle lotte, rivalità e inganni che si consumano nell’isola, mentre la vecchia classe dominante cerca di non rinunciare ai propri privilegi, di fermare il cambiamento. Ma la realtà, naturalmente, avrà il sopravvento. Questo almeno in teoria, poi in pratica la serie va verso tutt’altra direzione per quello che si è visto.
Tomasi di Lampedusa aveva descritto come un automatismo insito nella mentalità siciliana, nella sua storia fatta di invasioni continue, di stravolgimenti, questa capacità di cambiare e rimanere assieme immutati. Luchino Visconti tutto questo lo mostrò in modo impareggiabile sul grande schermo, creando un capolavoro dove fu profondamente fedele ai personaggi, alla loro personalità e soprattutto ai significati di cui si facevano portatori. Il Gattopardo di Netflix, invece, a causa della riscrittura a dir poco standardizzante di Benji Walters e Richard Worlow, rinuncia ad ogni reale metafora storica di prima importanza. In ultima analisi del libro ignora la profondità, la diverse chiavi di lettura, non gli interessano se non come mera facciata. Il risultato più palese? Un Kim Rossi Stuart fuori parte come raramente gli è capitato nella sua carriera, con questo Don Fabrizio che stona fin dal primo minuto.
La sceneggiatura della serie, rende il suo Principe di Salina un essere rude, incollerito e assolutamente scevro dalla stratificazione che Burt Lancaster raccolse in modo perfetto dal romanzo originale. Più che saggio, cinicamente malinconico, appare quasi una sorta di cumenda milanese in trasferta, oppure uno di quei boss sbucati da Narcos. Perennemente su di giri, armato di una prepotenza narcisista e fine a sé stessa non ha nulla del personaggio epico, stratificato nella sua cinica saggezza che Lampedusa cesellò. Diventa un uomo assolutamente meschino, mefistofelico, simbolo di una prepotenza tagliata a dir poco con l’accetta. Il Gattopardo è afflitto quindi dall’incapacità di abbracciare quella magnifica ambiguità di cui Tomasi di Lampedusa lo rese pregno, ed è il momento in cui la serie scopre le sue carte: questo è l’ennesimo prodotto afflitto da una standardizzazione algoritmica.
Tanta estetica, ma l’anima algoritmica è evidente
Il Gattopardo a conti fatti pare quasi un’ucronia per linguaggio, interazione tra i personaggi, atmosfere. Il racconto è forzatamente modernizzato e modernizzante, al servizio della Generazione Z e Alpha, delle loro supposte preferenze. Tutto è reso incredibilmente prevedibile, schiavo di un glamour scontato, del solito melodramma all’acqua di rose per gli under 25, che stritola l’affresco storico, le sue tematiche. Viene meno l’analisi dell’Italia e più ancora della Sicilia, del potere e del classismo che in esse sopravvissero a quella rivoluzione mancata, l’illusione di cambiamento che le masse abbracciarono. Per carità, bellissime le maestranze, i costumi e le scenografie, tutto di alto livello, lo stesso dicasi per la fotografia, ma abbiamo di fronte un racconto puramente muscolare, a tratti veramente goffo. Lo dimostra anche il resto del cast (privo di un singolo siciliano), che non viene usato per tratteggiare i personaggi di un momento storico, ma per creare figurine da mettere in fila.
Fonte : Wired