La globalizzazione è davvero finita?

Il terzo assunto, infine, è che la dimensione locale, la geografia, il luogo, torneranno a essere centrali nei prossimi anni. Nonostante uno quotidiano che sembra diventare sempre più digitale e immateriale.

La conclusione? Radicale. “È tempo di azzerare tutto”, si legge. “Dobbiamo condividere la ricchezza in maniera più ampia. Dobbiamo comprendere che il benessere economico non riguarda solo la crescita a livello internazionale o nazionale, ma piuttosto la gente reale, gli esseri umani che vivono in comunità specifiche”.

Rana Foroohar (Fazi editore)

“Abbiamo puntato sulla crescita fine a se stessa”

Foroohar accetta volentieri di parlare in videoconferenza dal suo appartamento di New York. L’edizione originale del libro appena tradotto è uscita in inglese nel 2022, a pochi mesi dalla guerra in Ucraina, quando non c’era traccia del conflitto a Gaza e la crisi energetica non era all’orizzonte. Cosa è cambiato da allora?Oggi c’è più polarizzazione, la politica è diventata più estrema, e c’è una guerra commerciale in corso: ma tutto rientra, credo, nel quadro generale di uscita dalla globalizzazione per come l’abbiamo conosciuta che ho tracciato nel libro. Ci stiamo muovendo verso un nuovo mondo post-neoliberale, che sarà più regionale, più locale”. “L’economia politica prosegue – è un pendolo: la globalizzazione ha funzionato per cinquant’anni, ma è arrivata all’estremo, e quando si arriva a quel punto il pendolo comincia a muoversi in direzione opposta: e adesso ci troviamo precisamente in quella situazione”.

Secondo Foroohar, “abbiamo puntato sulla crescita come se fosse un fine a se stessa, senza domandarci delle conseguenze sull’ambiente, le persone e il lavoro”, e scontentando – così – sinistra e destra. Ma “quello che abbiano imparato negli scorsi venti anni è che il luogo conta assolutamente. E che, se la gente paga le tasse e vota, vuole avere il diritto di dire la propria: non possiamo cavarcela definendoli semplicemente protezionisti, razzisti, xenofobi”. “Un sacco di gente”, prosegue ancora l’autrice, “quelli che chiamo somewhere people, ha radici da qualche parte. Penso agli insegnanti della scuola all’angolo, al panettiere, a chi non si muove con la frequenza delle anywhere people come i giornalisti, i dirigenti delle grandi aziende, i nomadi digitali. Ecco, queste persone credono che le decisioni prese dalla politica sono assunte da una sorta di élite tecnocratica, da gente che lavora nell’industria del software, in quella dei media. E si domanda: in che modo queste decisioni aiutano me nella mia comunità?”

La copertina del libro

Il ruolo dell’Europa: più integrazione per non finire schiacciata

In un mondo che cambia paradigma, si ridefiniscono i pesi nell’arena delle grandi potenze. Quale ruolo immagina per l’Europa? “Un ruolo importante, è un momento di portata esistenziale per l’Unione”, sostiene. “Tra i due modelli che abbiamo di fronte, lo Stato di sorveglianza cinese, dove non hai privacy e i dati sui cittadini sono raccolti dal governo, e i ‘tech bro’ californiani, che ormai siedono molto vicini al presidente, può esserci una terza via, e può essere quella del Vecchio continente”. Oggi è difficile da intravedere, dal momento che l’economia digitale vola, trainata dall’intelligenza artificiale e dal modello del tecnocapitalismo d’assalto. “Ma penso che assisteremo a una correzione da parte dei mercati nel giro di un paio d’anni, quando sarà chiaro che il monopolio dei giganti del web può essere spezzato all’improvviso, come peraltro è già accaduto nel caso di DeepSeek. Potrebbero crearsi delle opportunità per altri attori da un punto di vista competitivo, valoriale e regolatorio, e anche per l’Europa. Ma Bruxelles deve scegliere se integrarsi sempre più oppure essere schiacciata, spremuta da questi due giganti, rinunciando peraltro ai propri valori. Ce la farà? Penso di sì, anche se in maniera imperfetta. Anche perché a molti non piace ancora l’idea di investire in Cina, e la fiducia negli Usa sta venendo meno per colpa di Trump. L’Europa può approfittarne, a patto di seguire la ricetta di Draghi”.

Trump? “Un bullo”

Foroohar è nata nell’Indiana, Stato del Midwest americano. Non è a rischio di essere considerata una newyorchese radical chic. Venire dall’America profonda, spiega, l’ha aiutata a comprendere le ragioni per cui una grossa fetta di popolazione vota per Donald Trump. Ma anche a vedere i limiti del tycoon. “Trump è un bullo a cui piacciono le vittorie di breve periodo“, commenta, “come deportare i terroristi arrestati in piccole potenze come la Colombia o minacciare di riprendersi la Groenlandia. L’effetto, alla fine, è minare il senso di legalità e di fiducia negli Stati Uniti, e sono convinta che pagheremo un prezzo per questo. Anche se non mi rende felice dirlo, dal momento che una parte della mia pensione è investita in azioni statunitensi. Non mi piace pensare che saremo penalizzati per il brevitermismo di questo presidente”.

Il ruolo della stampa

E i giornali? Sono in molti a credere che non abbiano fatto un buon servizio. Foroohar non è completamente d’accordo. “Penso due cose”, afferma. “Internet negli anni Novanta ha sconvolto il mercato editoriale, portando molte pubblicazioni a limitarsi a cercare i click con le storie più facili. Oggi è diventato sempre più difficile fare giornalismo di qualità, e far pagare la gente per esso. Ma alla fine ottieni quello per cui paghi”. “Se da una parte, però, è vero che ci sono buone ragioni che hanno portato la gente a fidarsi di meno della stampa, dall’altra non si può negare che che il giornalismo sta giocando un ruolo importante nel sottolineare il cambio di paradigma in corso. E penso che se, come cronisti, continuiamo a raccontare quello che vediamo, e a indicare alle persone le parti del sistema che devono essere riformate, allora stiamo facendo un buon lavoro”.

Fonte : Wired