Reti e infrastrutture digitali, i big del tech devono pagare con le telco?

BARCELLONA – I big della tecnologia devono contribuire agli investimenti utili a costruire nuove reti e infrastrutture, al momento sulle spalle delle aziende di telecomunicazione e dei governi. Lo ha messo nero su bianco l’ex premier Mario Draghi nel rapporto sul futuro della competitività europea di recente presentato alla Commissione europea. Del “fair share” – così è noto il principio ribadito dall’ex presidente della Bce e della Banca d’Italia – se ne è parlato oggi in una delle tante sessioni che animano il Mobile World Congress, la grande fiera della tecnologia e della telefonia in corso a Barcellona. Sul palco Laura Ballarin Cereza, europarlamentare del Partito socialista, ex capo gabinetto della capogruppo Iratxe García e membro di tre commissioni compresa quella al mercato interno e alla protezione dei consumatori, insieme a Shahid Ahmed, vicepresidente europeo con delega a innovazione e nuove imprese di NTT DATA Inc., multinazionale giapponese da 100mila dipendenti che si occupa di system integration, servizi professionali e consulenza strategica, parte del gruppo Nippon Telegraph and Telephone. Con loro anche Denis O’Brien di Digicel, operatore caraibico presente in 25 paesi del mondo, e Ben Wreschner, group regulatory policy director di Vodafone Group.

Una mappa per l’Unione, quella di Draghi, che sottolinea la necessità di pesanti investimenti annuali, stimati tra 750 e 800 miliardi di euro, per colmare il divario con Stati Uniti e Cina in settori chiave come l’innovazione tecnologica (AI, chip, cloud e altri ambiti su cui l’UE è di fatto tagliata fuori) e le infrastrutture digitali. E che, dal punto di vista del consolidamento nel settore delle telecomunicazioni, prevede più soldi per la connettività, il passaggio da un modello regolatorio ex ante – da molti ritenuto drammaticamente penalizzante per i player europei e per gli investimenti a quello ex post – e appunto al coinvolgimento di Meta, Alphabet, Amazon, Netflix e compagnia negli investimenti sulle reti. Dal canto loro, i giganti hanno risposto che in realtà – con i data center, per esempio, e con la gestione dei cavi sottomarini intercontinentali – di fatto già contribuiscono all’infrastruttura di comunicazione globale.

Paesi come Italia, Francia e Spagna hanno sollecitato da tempo l’Unione Europea a sviluppare una legislazione che richieda alle principali aziende tecnologiche di contribuire finanziariamente al mantenimento e allo sviluppo delle infrastrutture di rete europee. “Per aumentare la capacità degli operatori dell’Ue di investire in queste tecnologie, si raccomanda di supportare la condivisione degli investimenti commerciali tra telco e very large online platforms che utilizzano in modo massiccio le reti di dati dell’Ue ma non contribuiscono a finanziarle” si legge nel documento firmato da Draghi. Una richiesta che, senza troppe sorprese, è stata rispedita al mittente dai colossi. Temono un aggravio economico sui propri bilanci che possa ostacolare l’innovazione e gli investimenti futuri nel settore. Cioè nella corsa all’AI, nei data center e nei servizi collegati. Nel complesso, però, sotto questo punto di vista il rapporto dell’ex presidente del Consigli italiano è stato accolto positivamente sia dal settore tecnologico europeo che da quello americano, poiché sottolinea l’importanza di aumentare e indirizzare meglio gli investimenti tecnologici, oltre a semplificare le regolamentazioni per favorire l’innovazione.

Chi deve finanziare le reti e chi dovrebbe sostenere questi costi, in un’era di esplosione della connettività utile a rendere possibile tutti i servizi a cui siamo abituati, dall’AI al cloud?” si è chiesto il moderatore Bocar Alpha Ba, Ceo di Samena Council, un’organizzazione non profit che raccoglie aziende telco di Nord-Africa, Medio Oriente e Asia. Tutto questo senza contare i ritardi che, fuori dai paesi occidentali, attanagliano le infrastrutture in diverse macro-regioni del globo, dove spesso quei network mancano del tutto o sono obsoleti e coprono male il territorio. È, insomma, un tema globale. Le telco spiegano che così, il modello potrebbe non reggere. Dall’altra, come visto, le grandi piattaforme spiegano di fare già la propria parte.

“Più investimenti arrivano dalle fusioni e dalle modifiche dell’ambito regolatorio, in questo modo i servizi ai cittadini possono migliorare – ha spiegato Ahmed – vedo invece male una tassa posta ai big player, che finirebbe per scaricarsi sui cittadini. Meglio la collaborazione”. Dal punto di vista delle istituzioni europee, invece, “dopo le lunghe riflessioni del 2024 consideriamo il 2025 come l’anno dell’azione sotto molti aspetti del digitale – ha spiegato Cereza – c’è chiaramente uno sbilanciamento notevole fra le infrastrutture del digitale e la mole di servizi offerti dagli operatori. Serve dunque un ecosistema più equilibrato che passi anzitutto da accordi volontari fra le parti per dare alle piattaforme un ruolo più attivo, come abbiamo visto in molti ambiti come quello dell’aviazione. Dovremo di certo accelerare la discussione e progettare dei sistemi legislativi che intervengano nel caso in cui questi accordi non funzionassero, per garantire gli standard di qualità e non perdere altro terreno rispetto a Stati Uniti e Cina. Tutto questo, e molti altri strumenti, finiranno Digital Networks Act che verrà approvato entro l’anno”. Un provvedimento molto atteso che appunto riorganizzerà il settore telco europeo. Sempre in ottica di integrare e rendere davvero operativo il Mercato unico digitale.

Ampliando lo sguardo al resto del mondo, le soluzioni possono essere diverse ma devono muoversi su tre direttrici, ha detto Wreschner di Vodafone: “Anzitutto ottimizzazione del traffico [per migliorare la capacità delle infrastrutture attuali e rendere gli investimenti davvero sensati, nda], poi occuparsi delle regolamentazioni superando norme vecchie e insensate rispetto alla mole di traffico odierno e infine, pur affidandosi ai principi del libero mercato, concordare con le agenzie regolatorie locali meno regole ma chiare, flessibili e semplici”.

Fonte : Repubblica