La resa di Apple al governo inglese rimette in discussione il senso dei servizi cloud?

A differenza di quanto accadde nel 2016 a proposito del rifiuto opposto da Tim Cook di cooperare con il FBI per sbloccare gli iPhone usati nella strage di S. Bernardino, questa volta Apple ha dato seguito alla richiesta del Regno Unito di poter accedere ai dati cifrati dei clienti.

Tecnicamente le due situazioni sono diverse, ma in termini concettuali sono facce di uno stesso problema, quello del diritto (o meglio, del potere) di Big Tech di opporsi alle richieste dei governi in nome della tutela dei diritti degli utenti (o più pragmaticamente dei propri modelli di business).

Un problema noto da tempo

Dunque, dopo aver accettato di lasciare i dati degli utenti cinesi in data centre localizzati nel Celeste Impero, sempre a fronte di una richiesta politica Apple ha disabilitato la funzionalità di Advanced Data Protection per gli utenti britannici. Sarà interessante vedere cosa farà Apple quando la UE imporrà il Client Side Scanning, cioè la perquisizione preventiva e automatica di smartphone e tablet alla ricerca di “contenuti illeciti”, peraltro già parte della strategia di Apple e sostenuta anche dall’Inghilterra.

Ironia della sorte a parte (Apple ha ceduto alle richieste di un governo democratico e occidentale, non a quelle di una teocrazia mediorientale o di una potenza capitalsocialista), la questione richiede di affrontare due temi.

Le scelte di un’azienda non devono per forza essere etiche, basta che siano legali

Il primo è quello del perché la scelta di Apple di cedere sulla tutela dei diritti dei propri clienti abbia sollevato così tanto scalpore.

L’unica responsabilità di Apple, come quella di ogni azienda, è prima di tutto verso i propri azionisti e poi (forse) verso i propri dipendenti. Tutto il resto, compresa la narrativa sui diritti, è marketing, cioè uno strumento di vendita che viene usato fino a quando serve, e messo da parte quando smette di essere utile. La parata dei Digital Robber Baron di fronte al nuovo Presidente USA e il netto cambio di rotta di Meta e altre aziende sul tema dell’inclusione, o quello imposto da Jeff Bezos alla linea del Washington Post sono autoesplicativi di una scelta ispirata a quel ruthless pragmatism —lo spietato pragmatismo— che caratterizzava il Frank “Kevin Spacey” Underwood, protagonista principale dell’indimenticabile House of cards.

Dunque, a che titolo sarebbe stato ragionevole aspettarsi che un’azienda avrebbe rinunciato al mercato cinese, britannico e poi chissà a quali altri in nome di un principio, per poi scandalizzarsi quando questo non accade?

Ripensare la fiducia nei servizi cloud

L’altro tema sul quale riflettere è l’impatto di scelte come quelle di Apple sul modello industriale basato sui servizi cloud, dall’attivazione dei device, al software as a service, alla memorizzazione remota di contenuti e informazioni, fino alle piattaforme di social networking, cioè su un intero ecosistema nel quale tutto è nelle mani di fornisce i servizi e nulla è sotto il controllo di chi li utilizza.

La diffidenza più grande che è stato necessario vincere per indurre cittadini, imprese e istituzioni a trasferire la propria esistenza sui computer di qualcun altro è quella verso la possibilità che qualcuno, di propria spontanea volontà o per “ordini superiori”, potesse accedere a dati e informazioni per gli scopi più diversi. Questo spiega gli sforzi enormi profusi da Big Tech per costruire infrastrutture metaforicamente a prova di attacco nucleare. Rassicurati da questa dimostrazione di forza, i clienti si sono lasciati convincere anche, probabilmente, fidandosi del fatto che le “agenzie governative” avrebbero “rispettato i propri diritti”.

L’illusione dei “diritti digitali”

Tuttavia, nonostante oggi sia diffusa la convinzione che i “diritti digitali” siano sacri e inviolabili e che nemmeno gli Stati possano permettersi di metterli in discussione, le cose non stanno esattamente così.

Uno Stato, qualsiasi Stato, anche uno Stato occidentale, liberale e democratico ha il potere e il dovere di indagare chiunque se c’è il sospetto della commissione di reati o se ci sono pericoli per ordine e sicurezza pubblica. La differenza con altri regimi che fanno la stessa cosa è nell’esistenza di controlli indipendenti che impediscono —o puniscono— gli abusi di questi poteri.

Premesso questo, dopo anni ci si dovrebbe essere convinti che l’inaccessibilità delle informazioni detenute da Big Tech per conto degli utenti non è così assoluta e che quindi non può essere garantita. Che questo sia giusto o sbagliato è un’altra questione, perché qui ed ora il punto è domandarsi se non sia arrivato il momento di riprendere il controllo della propria identità informazionale (cioè l’insieme dei dati e delle informazioni che dicono chi siamo) e della gestione delle infrastrutture pubbliche.

Il genio è uscito dalla bottiglia (o Pandora ha aperto il suo vaso)

Purtroppo, una prospettiva del genere è semplicemente irrealistica. Certo, nulla vieta di “riportare in casa” storage, posta elettronica, sistemi di videoconferenza, messaggistica e “produttività”, ma quali costi? E con quali tempi? Ma soprattutto, con quali software? E seppure un certo numero di utenti smettesse di usare tecnologie che li sottopongono al controllo costante e continuo di Big Tech, questo numero non sarà mai grande abbastanza da innescare un cambio nelle loro strategie.

In breve: le aziende continueranno ad adattarsi, e gli utenti dovranno scegliere tra accettare questa realtà o cercare di compiere il difficile, forse utopico, passo verso un’indipendenza tecnologica sempre più costosa e complicata.

La realtà è che le piattaforme cloud e i servizi digitali non sono mai stati veramente “fuori dalla portata” delle autorità, ma il mito di un ecosistema impenetrabile ha alimentato per anni la fiducia cieca degli utenti. Oggi, le dinamiche del potere che hanno condizionato la scelta di Apple dimostrano ancora una volta che la protezione dei dati è sempre e comunque una questione negoziabile.

L’illusione della protezione assoluta è crollata

In definitiva, dunque, il caso britannico è solo una battaglia nella guerra infinita fra i poteri statali e Big Tech. Dopo anni nei quali i giganti tecnologici hanno dettato l’agenda agli esecutivi, ora il pendolo inizia ad oscillare nell’altro senso, verso il progressivo allineamento delle infrastrutture digitali agli interessi statali, indipendentemente dal regime politico di riferimento.

In tutto questo, una sola cosa è certa: la speranza che i dati nelle mani di Big Tech siano (o possano essere) schermati da interferenze pubbliche è definitivamente tramontata.

Fonte : Repubblica