Gli Oscar 2025 ci hanno dato un buon esempio di come siano molte e diffuse le occasioni in cui un film e i suoi talent rischino di rompersi da soli le uova nel paniere. E sabotare, quindi, le loro chance di ambire al premio più prestigioso del mondo del cinema – a proposito, sapete da chi sono votati e come funzionano gli Academy Awards? Ve lo spieghiamo qui.
Basti pensare alle disastrose querelle in cui è carambolato Emilia Pérez di Jacques Audiard, candidato francese a lungo favorito per vincere il premio al Miglior film internazionale dopo aver ottenuto importanti riconoscimenti al Festival di Cannes 2024 e un ottimo consenso di pubblico e critica. Molto è ruotato attorno a Karla Sofia Gascón, protagonista e prima interprete transgender a venir candidata nella categoria di miglior attrice agli Oscar, che si è ritrovata al centro di diverse polemiche a seguito della scoperta di alcuni suoi vecchi e controversi tweet.
Un’intervista rilasciata dall’attrice per spiegare la propria posizione non ha fatto altro che peggiorare le cose. Si sono infuriati persino a Netfli, distributore internazionale di Emilia Pérez e che quindi investe e cura anche le attività di promozione del film. Il risultato per Gascón è stato ritrovarsi di fatto fuori dalla campagna per gli Oscar. Fuori, allora, da ogni possibilità di portarsi a casa la statuetta di una categoria peraltro già di altissimo profilo.
Tutte le nomination degli Oscar 2025
Vincere gli Oscar è una questione politica
Insomma, in un’epoca in cui tutto viene scandagliato fin nei più reconditi recessi del passato recente e remoto delle persone candidate, soprattutto se di mezzo ci sono affermazioni socioculturali forti. E un netto cambio di direzione politica negli orizzonti di un paese fortemente polarizzato come lo sono oggi gli Stati Uniti, nulla può essere lasciato al caso. La politica intesa come gli affari e la vita pubblica che regolamento una determinata comunità, ha moltissimo a che vedere con gli Academy Awards. Perché che vincere un Oscar sia questione di merito o di immacolata eccellenza artistica non è altro che una pia illusione.
Gli Oscar, come la quasi totalità dei premi (un po’ meno quelli festivalieri, che comunque non sono esenti da questi discorsi), rispondono innanzitutto a esigenze di posizionamento politico. Cioè a interessi culturali, ma anche e soprattutto economici. In fondo le due cose vanno da sempre a braccetto in un mondo come quello del cinema, che sin dagli albori manifesta dentro di sé il paradosso necessario e insolvibile di un’arte fortemente industrializzata. In un contesto simile chi è allora il più forte? Chi può pavoneggiarsi di più, organizzare più proiezioni per far vedere il proprio film a più persone possibili e invitare a più pranzi e più cene. In una frase? Chi ha più soldi.
Tre parole chiave: spendere, spendere, spendere
Più di due decenni addietro a cambiare le regole del gioco di come si gestisce una campagna per gli Oscar è stato Harvey Weinstein. Durante gli Academy Awards del 1999, il super produttore di Hollywood (poi travolto nel 2017 dagli scandali sessuali del MeToo) era capo della società di produzione Miramax, da lui fondata assieme al fratello Bob. In quell’occasione Weinstein mise in atto un’aggressiva tattica di sponsorizzazione del film Shakespeare in Love di John Madden. L’obiettivo era quello di promuovere a tappeto la pellicola attraverso eventi da piazzare massicciamente lungo la stagione dei premi, che si intensifica nei tre o quattro mesi prima della data degli Oscar, così da creare una sorta di rete di impressione collettiva negli addetti del settore.
Non è che prima ciò non avvenisse, ma il tutto era considerato più un affare da discutere in maniera cortese e aristocratica, con mutui considerazione e riconoscimento. L’atteggiamento spregiudicato di Weinstein sbaragliò tutto. E funzionò. Shakespeare in Love si aggiudicò sette premi Oscar, tra cui l’ambito miglior film, in un’edizione in cui tutti sulla carta davano per favorito il lanciatissimo Salvate il soldato Ryan di Steven Spielberg.
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Da lì in poi le case di produzione e distribuzione si sono adeguate a questo nuovo paradigma. Ma agire in questo modo comporta una pianificazione strategica notevole, l’ingaggio di esperti per la progettazione marketing (gli studios più grandi hanno interi reparti preposti al compito) e una presenza pubblicitaria costante per mesi e mesi. E quindi, di fatto, una spesa ingente.
In un articolo del 2019, Variety stimava che la campagna Oscar per film che ambiscono a competere in più categorie possa arrivare a costare cifre tra i 20 e i 30 milioni di dollari. A prescindere dalle oscillazioni, in ogni caso film di un certo calibro difficilmente scendono sotto i 5 milioni di dollari in investimenti.
Perché spendere molto significa farsi notare, far vedere il proprio lavoro a chi conta e farlo nel momento giusto. Un altro esempio considerato eclatante è quello di Crash di Paul Haggis. Ritenuto da molti il peggior titolo a vincere l’Oscar al miglior film – almeno nel nuovo millennio – nel 2006 l’opera sfilò il premio a I segreti di Brokeback Mountain di Ang Lee, grande favorito di quell’edizione. Uno dei fattori determinanti fu l’invio da parte di Lionsgate, la casa di produzione del film, del DVD di Crash ai membri votanti della Screen Actor Guild (SAG), il sindacato degli attori. E da cosa nasce cosa: per Crash, film corale con un cast molto numeroso, ottenere il supporto della più larga e mediaticamente influente categoria ebbe un impatto cruciale per la vittoria finale.
Una questione di narrativa
Avere i soldi e farsi pubblicità però non basta. Vincere un Oscar significa anche avere anche una buona narrativa attorno al proprio film, cosa spesso ben più importante di quanto sia avere di fatto un buon film. In un ambiente come quello dello showbusiness, che si alimenta sull’immagine e che sull’immagine costruisce impalcature di sostenibilità e credibilità lavorativa, è fondamentale sapere raccontare la cosa giusta. Arrivare a votare per un film o per una determinata performance significa appoggiare ciò che ha fatto e ciò in cui crede chi ha realizzato e chi ha partecipato a quel determinato film. Il riconoscimento all’arte in quanto tale è un miraggio in un palcoscenico che è celebrazione delle attività e dello stato di salute di un’intera industria che muove miliardi di dollari.
Occorre quindi essere in grado di settare un tono e una scala di valori. La costruzione pubblicitaria deve ruotare attorno a un ‘pacchetto’ tematico forte da agganciare addosso al proprio candidato. E la differenza tra l’arrivare o meno fino in fondo sul palco del Dolby Theatre di Los Angeles sta anche nel saper far leva su specifici ‘archetipi’, etichette da affibbiare a un’opera che siano il più facilmente riconoscibili e in cui far identificare l’umore della comunità dello spettacolo, che avverte sempre l’urgenza di apparire dalla parte giusta della Storia. Perché farlo significa intercettare dove si sta orientando una società e quindi un potenziale pubblico futuro.
In un approfondito articolo su Vox che indaga su molte di queste dinamiche, Alissa Wilkinson fa l’esempio dell’archetipo dell’underdog – cioè del film sfavorito e dal cammino travagliato e imprevisto – per Black Panther di Ryan Coogler. O ancora dell’archetipo della celebrazione dell’arte per La La Land di Damien Chazelle e The Artist di Michel Hazanavicius. “Anche quando un film non entra negli attuali dibattiti culturali – scrive Wilkinson – un voto a favore è un voto per una particolare visione di Hollywood. È una rappresentazione dei valori che l’elettore vuole proiettare, nonché se trova il film riconoscibile. E questo può avere un grande impatto sulla destinazione del loro voto.”
Mettersi in gioco… e giocare
Un’altra netta differenza sta poi nella disponibilità di registi e membri del cast di porsi in mano ai propri agenti e uffici stampa per prestarsi a ogni genere di attività sociale. Tra cui fare più proiezioni pubbliche possibile, alle quali partecipare personalmente e con predisposizione a sessioni di domande e risposte con gli spettatori.
Un genere di eventi che si intensifica da ottobre – ovvero dopo i festival del cinema di Venezia e di Toronto – a marzo e che vede parallelamente adoperarsi con strategie di marketing che lavorano su fronti classici: dall’acquisto delle pagine di giornale di settore (The Hollywood Reporter, Variety, ecc.) in cui pubblicizzare il proprio film, alla cartellonistica in giro per i luoghi di riferimento di Los Angeles, centro nevralgico della corsa agli Oscar.
Tutto ciò negli ultimi ultimi anni significa anche spingere molto sul lato della costruzione dell’immagine social del film e in particolare dei talent. Basti pensare a come si è speso Timothée Chalamet con trovate curiose e di immediato impatto per A Complete Unknown di James Mangold, di cui è protagonista, su cui ha investito una parte degli ultimi cinque anni della propria carriera e per il quale è candidato come miglior attore. Alla premiere del film a Londra, Chalamet è arrivato sul red carpet a bordo di una bicicletta elettrica a noleggio, a quella di Roma ha invece sfilato con un ciondolo dell’omonima squadra di calcio in bella vista, di cui è notoriamente tifoso e la cui partita è andato a vedere immediatamente dopo la presentazione della pellicola al pubblico. Entrambi gli episodi sono stati rilanciati ovunque sui social.
Il punto di questo discorso è che i membri dell’Academy, che sono circa 10 mila, non guardano mai tutti i film. Sarebbe ideale che lo facessero, ma realisticamente ciò non accade. Quindi spesso si affidano al passaparola o al suggerimento di un amico, oppure vengono incuriositi da un’opera valutando la portata dell’esposizione mediatica di un determinato film nonostante ci siano, comunque, rigide regolamentazioni dell’Academy su quanto un candidato possa direttamente contattare o influenzare un votante.
Insomma, non esiste una formula precisa per aggiudicarsi un Oscar. Ma ciò che è certo è che esistono una serie di caselle in cui collocarsi e da cui trarre beneficio, che occorre lavorare sulle reti di contatti e oliare i macchinari sociali con una bella dose di fascino e sorrisi.
E magari, possibilmente, anche con una sacca piena di denaro da spendere.
Fonte : Today