“Highway 61 Revisited” di Bob Dylan è un mito rock completo

All’inizio Bob Dylan era l’America delle strade polverose, delle metropoli fredde, delle stazioni di servizio desolate, delle chitarre scordate e dei poeti che cantavano gli ultimi. Ma nel 1965, l’America non era ancora pronta per quello che Dylan stava per diventare. A Newport aveva acceso la miccia con la sua Fender Stratocaster, mandando in frantumi la narrazione del menestrello buono e puro. Arrivò Highway 61 Revisited, e nulla fu più lo stesso.

Dylan tra ieri e oggi

Il biopic A Complete Unknown, uscito di recente, ha riportato in auge il mito di Dylan, raccontando il periodo della sua svolta elettrica e lacerante. L’interpretazione di Timothée Chalamet, che ha incarnato un Dylan sfrontato e visionario, ha raccolto consensi unanimi e lo ha portato dritto verso una candidatura all’Oscar come miglior attore protagonista (il primo nato negli anni ’90). Il film non si limita a raccontare una storia, ma si immerge nell’universo psichedelico e controverso di Dylan, mostrando il peso della sua ribellione e la portata della sua rivoluzione musicale. Anche se la narrazione è in molti punti romanzata, come i fischi del pubblico al festival di Newport, che in realtà furono causati più per l’acustica pessima che non per il “tradimento elettrico” – per la cronaca, la contestazione più feroce dei puristi del folk avvenne durante un tour in Inghilterra – il film traccia bene la linea di demarcazione nella musica e nella cultura occidentali tra il prima e dopo il 1965.

Chi pensa che Dylan fosse solo un musicista non ha mai letto i suoi testi con attenzione. Le sue canzoni non sono semplici versi: sono incubi, allucinazioni, poesie sfuggenti che devono più a Rimbaud e Baudelaire che a Woody Guthrie. Dentro Highway 61 Revisited c’è la rabbia di Ginsberg, il viaggio senza meta di Kerouac, la disperazione di Eliot. Dylan scrive da poeta maledetto, ma suona da rivoluzionario. Oggi, nel 2025, mentre A Complete Unknownriporta in auge il mito di Dylan, Highway 61 Revisited resta un disco necessario. Non è solo un classico, è una bussola per chiunque voglia capire cos’è il rock. Se il rock ha una Genesi, Highway 61 Revisited è il suo Vecchio Testamento: elettrico, apocalittico e impossibile da ignorare. E oggi, nel 2025, è ancora più vivo di tante playlist da algoritmo.

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Il disco

A onor del vero, la svolta elettrica Bob Dylan la compì qualche mese prima, nel marzo 1965 (Highway 61 Revisiteduscì in agosto), con l’album Bringing It All Back Home, per metà appunto elettrificato. Concluse poi la parabola elettrica con un altro capolavoro, il successivo Blonde on Blonde del 1966.

Negli USA, sessant’anni fa, il folk rappresentava la musica alternativa, quella delle proteste e delle marce per i diritti, mentre il rock era visto come un giocattolo per adolescenti, un jukebox di emozioni semplici da consumare e gettare. Dylan unì quelle due anime della musica americana infarcendole di poesia. Lo fece gradualmente con il primo disco della trilogia elettrica e arrivò a imporre, con la sua voce nasale e sarcastica, con le sue immagini apocalittiche e i riff incandescenti, delle regole nuove per il rock. Trascinò la musica popolare in una dimensione nuova, senza ritorno, in una forma d’arte a tutto tondo.

La copertina è un manifesto. Un ragazzo magro, spettinato, con una camicia psichedelica e un’aria di sfida. Sembra quasi un punk ante litteram, anni prima di Johnny Rotten e dei Ramones, con lo sguardo di chi ha già visto troppo. Quel ritratto dice tutto: Bob Dylan non è più il profeta del folk, è un ribelle, un outsider, il ragazzo che ha sbattuto la porta del Greenwich Village e ha deciso di guardare oltre.

Le canzoni

L’album si apre con Like a Rolling Stone, sei minuti e mezzo di disillusione e invettive, uno dei testi più iconici mai scritti. How does it feel? diventa il grido di una generazione che si sveglia dal sogno, che si accorge che la strada davanti a sé non ha più segnaletica.

Quindii arriva Tombstone Blues, un’esplosione di immagini surrealiste su un tappeto di rock blues frenetico. Qui Dylan non canta, sputa parole, trascina lo spettatore in un viaggio allucinato tra personaggi storici accostati alla rinfusa e visioni distorte. It Takes a Lot to Laugh, It Takes a Train to Cry rallenta il passo, ma non la profondità: è il blues dei vagabondi, un lamento elegante e sfatto al tempo stesso.

Queen Jane Approximately mostra il lato più dolce e malinconico di Dylan, una ballata che ritrae una donna sospesa tra critica e compassione, tra invito e addio. Qui il rock si fa quasi liturgico, con la voce di Dylan che sembra danzare sopra una melodia sinuosa e avvolgente.

In Ballad of a Thin Man Dylan si fa beffardo, quasi teatrale, punta il dito contro chi non capisce, contro chi resta indietro mentre il mondo cambia. You know something is happening but you don’t know what it is, do you, Mister Jones? è la presa di coscienza che l’establishment non ha gli strumenti per comprendere la rivoluzione in atto.

E poi c’è la title track, Highway 61 Revisited, un blues elettrico e apocalittico, in cui la strada diventa metafora surreale di un’America in delirio, piena di venditori, imbonitori, peccatori e profeti senza fede. Dylan ride, ironizza, fotografa un mondo in cui tutto è in vendita, dove la verità è solo un altro prodotto da piazzare. L’Highway 61 è una strada di 2300 chilometri che si estende da Duluth (Minnesota), città natale di Dylan, fino a New Orleans (Louisiana). Era la via del blues, la via percorsa dagli afroamericani che si spostavano dall’America rurale alle metropoli del nord seguendo il Mississippi.

L’album si chiude con Desolation Row, dieci minuti di immagini enigmatiche e potenti, una sinfonia di parole che evoca un mondo in disfacimento. Qui Dylan abbandona l’elettricità (anche se la canzone venne inizialmente registrata in versione elettrica) per tornare a una chitarra acustica e dipingere un affresco surreale, dove personaggi mitologici, storici e letterari si confondono in un’allucinazione collettiva.

Autore: Bob Dylan
Titolo: Highway 61 Revisited
Genere: Blues Rock, Folk Rock
Anno: 1965 (CBS Record)
Voto redazione: 9/10 

Fonte : Today