Così l’Intelligenza artificiale potrebbe evitare un nuovo caso Sinner

La vicenda Sinner non è l’unica a evidenziare le contraddizioni e le carenze dell’antidoping sportivo, ma è certamente quella che più di altre dimostra l’indispensabilità di riformare un sistema basato essenzialmente sull’analisi di campioni biologici per cercare tracce che lascino sospettare l’uso di sostanze o metodi vietati, invece di concentrarsi sull’individuazione di prestazioni “fuori standard” rispetto alle caratteristiche fisiologiche dell’atleta grazie ad AI e machine learning.

Perché, oggi, si è puniti per “doping”

Attualmente, come evidenzia il caso Sinner, per essere puniti dalla giustizia antidoping basta che nell’organismo dell’atleta sia rilevata una sostanza vietata, a prescindere dal fatto che questa sostanza ne abbia effettivamente incrementato le prestazioni. L’incoerenza di questa regola fa il paio con quella, applicata anch’essa nel caso di Sinner, che considera l’atleta responsabile anche per i fatti commessi da chiunque interagisca con lui e a prescindere dagli effetti provocati da questa interazione (come per esempio il trasferimento per contatto da un corpo all’altro della sostanza, o l’assunzione tramite un piatto di tortellini).

Quali sono i presupposti dell’antidoping

A prescindere dagli aspetti più strettamente giuridici sull’assenza di una definizione oggettiva di doping (è doping quello che la WADA qualifica come tale) e sulla compatibilità del sistema antidoping e di giustizia sportiva con la tutela dei diritti umani, il problema fondamentale di queste regole è che applicano una sorta di principio di precauzione e dunque non danno nessuna rilevanza agli effetti concreti della presenza di sostanze vietate o dell’uso di metodi non consentiti.

Questa concezione poteva avere senso agli albori dell’antidoping quando di fronte ad atleti che mostravano caratteristiche o prestazioni fuori dal comune si faceva ricorso ad un ragionamento basato sull’induzione: esistono dei valori fisiologici medi, se l’atleta li oltrepassa allora c’è qualcosa da approfondire (oppure, verifichiamo in anticipo se ci sono elementi potenzialmente rivelatori). Questo è il ragionamento fatto negli anni ’70, per esempio, in relazione all’uso di steroidi da parte degli atleti della Germania orientale (e che ancora pochi mesi fa venne fatto per il caso Khelif) e che era, però, basato su una relazione fra l’assunzione di sostanze “estranee” e l’incremento “innaturale” (ma anche su questo ci sarebbe da discutere) della prestazione.

Gli estremismi del nuovo antidoping

Le motivazioni che condussero a creare un sistema antidoping affondano nell’impatto emotivo causato dalla morte di un ciclista danese alle Olimpiadi del 1960 a Roma, causata dall’assunzione di anfetamine. Quell’evento tragico fece definitivamente realizzare l’importanza di tutelare la salute degli atleti e dunque di evitare comportamenti che potevano metterla a rischio. Se, tuttavia, questo era l’obiettivo, allora non si capisce perché venga considerato illecito anche ciò non mette a rischio la salute (come nel caso Sinner) né altera artificialmente la competizione sportiva (tema emerso collateralmente nel caso delle atlete naturalmente iperandrogine).

Ridefinire il doping grazie ad AI e machine learning

È chiaro che il modo in cui è stato progressivamente ampliato il concetto di doping non è più sostenibile e che dovrebbe tornare all’interno del perimetro inizialmente definito: quello della tutela della salute dell’atleta. Dunque, si dovrebbe innanzi tutto rivedere la definizione di doping e limitarla ai casi nei quali l’uso di sostanze o metodi vietati modificano effettivamente la prestazione sportiva.

Per farlo, ai test biologici e genetici si dovrebbero affiancare analisi sull’andamento delle prestazioni dell’atleta sia durante le fasi dell’allenamento sia nel corso delle competizioni in modo da rilevare misure “fuori scala”.

Fare una cosa del genere non è impossibile, dato che wearable device e AI sono già largamente diffusi per analizzare e migliorare le prestazioni degli atleti. Dunque, nulla vieterebbe di utilizzare l’enorme quantità di dati generati nel corso di una carriera sportiva anche nell’ambito antidoping.

Almeno sul breve periodo, però, questo non sembra possibile perché nonostante la versatilità offerta da queste tecnologie esse vengono, anzi verranno, essenzialmente utilizzate per rilevare la presenza di sostanze illecite o di parametri fisiologici non conformi. In questo modo, però, con una certa miopia viene perpetuata la stessa impostazione culturale che sacrifica i diritti degli atleti sull’altare di un non meglio qualificato “fair play” ma che continua a non tutelarne l’integrità fisica e il diritto a perseguire una carriera sportiva senza essere sanzionati per fatti che non sono stati commessi.

Fonte : Repubblica