Paolo Taticchi, l’italiano che vuole cambiare il capitalismo con la sostenibilità

Nella lista dei 50 pensatori del 2025 c’è un giovane italiano che si occupa di corporate strategy e sustainability. Siamo a Londra, al 50esimo piano di un grattacielo di Canary Wharf. Da qui, Paolo Taticchi guarda la città che gli ha dato grandi opportunità. «Il sistema accademico italiano è tutto ma non meritocratico». A 43 anni è uno dei pensatori di management più influenti del mondo. Professore ordinario di strategia aziendale e sostenibilità d’impresa alla business school di UCL (top 10 University), è anche Co-Direttore del nuovo UCL Centre for Sustainable Business.

La scorsa settimana il Financial Times ha inserito il suo progetto per la valutazione dell’impatto sociale delle aziende fra quelle ricerche che fanno la differenza nel mondo. «L’impatto sociale è una delle cose più difficili da misurare, ma è fondamentale per gli impact investors». In pochi anni, Taticchi ha collezionato una serie di riconoscimenti prestigiosi. Nel 2018 è stato inserito nella lista dei 40 migliori professori di business al mondo under 40 e lo stesso anno ha ricevuto l’onorificenza di Cavaliere dell’Ordine al Merito della Repubblica Italiana. Nel 2024 ha ritirato il premio in memoria di Stefan A. Riesenfeld assegnato dall’Università di Berkeley a personalità che hanno un impatto significativo sulla società.

Eppure, per anni, Taticchi si è posto continuamente una domanda: quale sarà la mia eredità al mondo? Aveva 25 anni quando il suo mentore scomparve improvvisamente. Quel giorno decise che avrebbe lasciato il segno.

Di Perugia, figlio di un’insegnante di liceo classico e di un professore universitario di chimica organica, si laurea in ingegneria meccanica. Dottorato in ingegneria gestionale e, in parallelo, un master in business administration. Qui incontra Piero Lunghi, il professore che gli cambia la vita e che, a soli 34 anni, muore in un tragico incidente stradale. «Per più di dieci anni ho avuto un’ossessione: che cosa lascio al mondo se muoio giovane? Il mio professore sognava di creare una business school inglese in Umbria. Quello è diventato uno dei miei sogni».

Taticchi nel 2008 fonda a New York la prima Summer School Internazionale dell’Università degli Studi di Perugia. Il programma era dedicato a Piero Lunghi ed era centrato su temi di Management. «Ho organizzato 5 edizioni, fino al 2012, nei campus di prestigiose università di New York: PACE, NYU, Columbia, mettendo insieme professori dalle migliori business school del mondo». In parallelo fa anche il percorso inverso. Nel 2009 va a incontrare la Bradford School of Management, una delle più antiche business school del Regno Unito e li convince ad aprire un campus in Italia, a Spoleto. Assume la direzione del loro MBA, diventando il più giovane direttore MBA al mondo di una Busines School con la prestigiosa “Triple Crown” (tris di certificazioni che hanno solo 136 business school nel mondo).

Ha portato nel mondo accademico un approccio imprenditoriale. Oggi tutta la sua vita ruota intorno alla sostenibilità, aiutando le imprese a ripensare ai propri modelli di business, per garantire loro successo e per costruire un capitalismo migliore. «Il capitalismo tradizionale ha creato valore per pochi. Ora dobbiamo spingere perché nuovi modelli di business creino valore per una pluralità di stakeholder: azionisti, dipendenti, comunità locali. È una transizione necessaria».

A che punto siamo?

«C’è una nuova consapevolezza. Le aziende che oggi investono seriamente nella sostenibilità capiscono che non è solo un costo, ma un driver di profitto e competitività. Un’azienda non sostenibile fatica ad attrarre talenti, perde competitività e soprattutto opportunità di mercato».

Qual è la prima cosa che insegna ai suoi corsi?

«Parto da un caso reale: qualche anno fa, in una grande azienda di elettronica, 17 dipendenti si tolsero la vita per le condizioni di lavoro estreme. Turni di 12 ore al giorno, sei giorni su sette, per 150 dollari al mese. La sostenibilità non è solo ambientale, ma anche sociale: parliamo di persone, non solo di emissioni. E non è semplicemente un progetto».

Cosa significa?

«La sostenibilità non è un progetto con un inizio e una fine, ma una transizione continua. Serve un piano strategico per creare valore, e tutto deve partire da una leadership consapevole. Qualche giorno fa ho invitato in una mia lezione l’ex CFO di Enel, Alberto De Paoli. Ha raccontato come, oltre 15 anni fa, la decisione di puntare sulle rinnovabili fosse vista come una follia. All’epoca, produrre energia da fonti rinnovabili costava circa 380 euro a megawattora, mentre l’energia da combustibili fossili si attestava sugli 80 euro a megawattora. Il management ha saputo vedere oltre: oggi Enel produce energia pulita a costi inferiori rispetto ai combustibili fossili ed è leader mondiale delle rinnovabili. Questo dimostra che una visione forte può cambiare il mercato».

Quanto è importante la formazione in questa transizione?

«È fondamentale. Rendere un’azienda più sostenibile vuol dire lavorare in maniera diversa, formare tutte le persone in tutte le funzioni, a tutti i livelli. Le aziende che spingono sul tema della sostenibilità spingono su nuove competenze e upskilling…».

C’è ancora molto da fare…

«Il futuro sarà migliore perché stiamo insegnando alle nuove generazioni che la sostenibilità è un valore. Qualche giorno fa passeggiavo nei giardini di Canary Wharf con il maggiore dei miei tre figli. A 8 anni, mi ha dato una lezione sul riciclo e sull’economia circolare. Oggi formo dirigenti che faticano ancora a comprendere il valore della sostenibilità, semplicemente perché non è mai stato un tema centrale nella loro educazione. I bambini di oggi studiano questi concetti fin dalla scuola primaria, li interiorizzano come valori fondamentali della vita. Così, un bambino ti dice: «Non buttare la plastica in questo cestino ma in quell’altro, altrimenti finisce nel fiume e fa male ai pesci».

Lei si occupa anche di intelligenza artificiale: come può l’AI aiutare la sostenibilità?

«Studi recenti indicano che le soluzioni basate sull’AI potrebbero supportare fino all’80% degli obiettivi di sostenibilità dell’Agenda di sviluppo sostenibile delle Nazioni Unite (SDGs). La trasformazione sostenibile è legata all’innovazione tecnologica. Per esempio, già oggi AI e droni vengono combinati per monitorare in tempo reale fenomeni critici come lo scioglimento dei ghiacciai, permettendo interventi mirati e un’analisi più approfondita dei cambiamenti ambientali in pochi secondi».

Lei è un professore, figlio di due professori: istruzione e conoscenza sono ancora gli strumenti per fare la differenza?

«Il web e l’intelligenza artificiale hanno reso l’accesso alle informazioni e alla cultura alla portata di tutti. Ciò che farà davvero la differenza sarà la capacità di sviluppare un pensiero critico. Non basta avere accesso a una quantità infinita di dati: è essenziale saperli leggere, analizzare e interpretare».

Come avere una mente critica?

«Mio papà direbbe: leggendo la storia. La storia insegna che i fatti hanno molteplici chiavi di lettura. Non c’è solo il bianco o il nero. Per sviluppare un pensiero critico bisogna affrontare problemi complessi, essere curiosi, non accontentarsi della prima risposta. E poi serve anche il confronto con persone che hanno culture diverse, modi di fare diversi. Non sarei andato lontano, se fossi rimasto a Perugia…».

Ci racconti…

«Il mio secondo anno di dottorato a New York è stato decisivo. Ho avuto l’opportunità di lavorare con un professore indiano alla Stern School of Business della New York University. Era alla fine della sua carriera e, vedendo la mia determinazione, mi ha preso in simpatia.

Quando riceveva inviti a conferenze, faceva il mio nome al suo posto. Tra i 27 e i 28 anni, ho iniziato a viaggiare il mondo come relatore. A 30 anni avevo già insegnato in una decina di paesi, a un ritmo che di solito richiede vent’anni di carriera. Ho tenuto corsi in Cina, Taiwan, America, India…. Sono venuto a Londra nel 2012 per una scommessa. Mi offrivano un posto da professore, in Italia dovevo lottare per avere un assegno di ricerca…».

Fonte : Repubblica