Lucio Corsi ha detto quello che avevamo bisogno di sentirci dire

A fine dicembre, di fronte all’ennesimo post di una coppia vestita da elfo col figlio in coordinato davanti all’albero di Natale, mi sono chiesta che fine farà tutta questa ossessione per l’auto-rappresentazione sui social network. Quand’è che giungerà a saturazione, dandoci finalmente la nausea. Non ho saputo rispondere. Perché, in fondo, per quanto il mio intuito potesse immergersi nell’immaginare, c’ero ancora dentro anch’io fino al collo: tre giorni prima avevo condiviso svariate foto del mio ufficio addobbato a festa. Stavo insomma costruendo anch’io il mio personaggio pubblico, e soprattutto lo stavo costruendo ovviamente vincente. Poi è arrivato Lucio Corsi, che nel giro di sei giorni è passato dall’essere un cantautore sconosciuto al grande pubblico a simbolo della canzone nazionale popolare. E ho pensato che il successo della sua “Volevo essere un duro”, seconda classificata a Sanremo, contenesse in qualche modo una risposta a questa domanda: il brano è, tra le altre cose, uno specchio sulla nevrosi di quest’epoca ossessionata dal rapporto con se stessi e col giudizio altrui. Ed è esattamente ciò che chiediamo ai veri cantautori: dirci ciò di cui abbiamo bisogno, magari prima ancora di avere la lucidità per capirlo. D’altra parte, non è un caso se nel 2021, mentre le zone rosse ci tenevano chiusi in casa, a vincere fu il rock ribelle dei Måneskin.
 
Il concetto è che, se Corsi avesse pubblicato la sua canzone qualche tempo fa, sarebbe stata sì altrettanto ascoltata dal pubblico, per via della sua bellezza travolgente, ma molto probabilmente sarebbe stata meno sentita. Quello di Corsi è infatti un elogio all’unicità di ciascuno di noi nella convinzione reale – e dunque motivante – di poter accettare le proprie fragilità; e, per quanto l’ode alla “normalità” è da sempre ben accolta dal pubblico, perché consolatoria, in questi tempi di “performatività” tossica diventa fin troppo necessaria per poter essere considerata ruffiana. “Volevo essere un duro”, ha spiegato l’artista, “parla del fatto che spesso non si riesce a diventare ciò che si sognava di essere e che spesso si sogna qualcosa che in realtà non è tanto meglio di ciò che siamo già. Questo mondo ci vuole indistruttibili, inscalfibili, perfetti e solidi come le pietre ma noi siamo molto più in bilico. L’equilibrio è precario, bisogna solo accettarlo”.

“Volevo essere un duro” di Lucio Corsi: testo e significato della canzone di Sanremo

“Quant’è duro il mondo, per quelli normali”, canta Corsi. E le parole arrivano rincuoranti, poiché pronunciate al termine di anni in cui il tempo investito a guardare le vite ben piegate ed esposte in vetrina – nostre, dei nostri vicini, degli influencer che hanno ubriacato il mondo di una perfezione rivelatasi irreale – è stato fuori misura. Arrivano al momento giusto, cioè quello dello sfinimento. Quello in cui siamo finiti a vivere la pressione sociale in una maniera ormai paradossale: da una parte resta la rincorsa a costruire un’identità pubblica di successo (e, quand’anche perdente, comunque ostentata in una feticizzazione della fragilità); dall’altra la corsa a mettersi in salvo, a indagare come mai prima il concetto di “salute mentale”, al punto da portarlo all’abuso, allo svuotamento di senso nel caso di certe derive commerciali. A mettere pace tra le parti, ci pensa oggi il menestrello toscano. Che, in questo festival definito il meno politico degli ultimi anni, usa “l’anima e non la politica come Nick Cave”, per usare le sue parole. “Non sono altro che Lucio”, canta. 

Una beatificazione perfino stucchevole

Corsi è insomma l’opposto di ciò che rincorriamo affannosamente, e proprio per questo ci seduce. Viene da quello che chiama “il far west maremmano”, un posto vicino Grossetto che ama descrivere come fuori dal tempo, dove in vetrina trovi al massimo qualche giardiniera sott’olio, dove c’è il ristorante della nonna e una sala prove in mezzo ai campi. Dove c’è, soprattutto, un ritorno alla genuinità che ricorda di poter essere “normali”, persino “ultimi”, senza colpa. Da qui una corsa alla beatificazione del personaggio. Una santificazione che, in certe derive, è diventata persino stucchevole. Ma per colpa nostra, non certo sua. 

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Contro la musica dell’algoritmo

La guerra alla performatività di Corsi non è infatti una forzatura, né una ruffianeria, bensì fa parte della sua stessa natura. Lui, appunto, “non è altro che Lucio”. “Al festival è stato un piccolo vascello pirata che se l’è vista con transatlantici come Giorgia, Fedez, Achille Lauro”, senza però cercare la competizione, come ha scritto egregiamente in questo editoriale il nostro Patrizio Ruviglioni, “Votate chi vi pare, tanto la musica non è una gara”, ha detto. L’opposto della musica di oggi, insomma, costruita a tavolino, assemblata in cassa dritta e sempre più ripetitiva, come chiede l’algoritmo di raccomandazione delle piattaforme. 

All’immagine dei rapper contesi tra le case di moda, usati come manichini per collane da 70mila euro (ogni riferimento a Tony Effe è ovviamente sottinteso), ha poi opposto una fisionomia eterea e abiti vissuti: “Sono gli stessi che uso nei miei live, perché volevo essere elegante ma a mio agio”, ha spiegato, “sono cose trovate in giro, alcune fatte a mano da un francese che ho trovato a caso su Internet. Mi piacciono perché da lontano possono sembrare una sciccheria ma visti da vicino sono davvero distrutti. Il glam rock è fatto di stracci, non di cose costose: quegli artisti erano persone che volevano fuggire dal grigio delle loro vite con queste fughe nello scintillio”. Ai featuring di convenienza tra case discografiche, nella serata dei duetti ha risposto cantando insieme a Topo Gigio. “Ma non è una gag”, ha spiegato, “è un personaggio di fantasia molto più reale di tante persone che conosco”.  

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Fonte : Today