Covid-19, cinque anni dopo la pandemia la sanità pubblica italiana è finita nell’oblìo

Nel 2020, a febbraio, il mondo si fermava per il Covid-19. Io facevo parte della categoria di chi non poteva permetterselo: il personale sanitario. Lavoravo in terapia intensiva in Toscana. In reparto si respirava tensione, mista alla consapevolezza che il virus sarebbe arrivato. Cinque anni fa preparavo il mio borsone con tutto l’essenziale, nel caso dovessi trascorrere una quarantena in ospedale. Il 21 febbraio 2020 salutavo la mia famiglia e gli amici senza sapere quando li avrei rivisti. Oggi, grazie ai progressi scientifici e tecnologici, conosciamo bene il SARS-CoV-2, ma allora ci accompagnava un senso di impotenza, alimentato dalle poche informazioni disponibili sul virus e sulla malattia, il Covid-19. Non mi sentivo pronta per l’arrivo di una pandemia, ma essendo una lavoratrice nella sanità pubblica ero già abituata a sopperire ai disagi e alle carenze organizzative.

Le carenze

La situazione nei nostri ospedali e sul territorio, già nel 2019, non era idilliaca. Si iniziavano a percepire tutte quelle carenze strutturali che la pandemia ha poi esacerbato e che oggi sono sotto gli occhi dei cittadini. L’Italia continua a destinare alla sanità una percentuale, in rapporto al pil, inferiore rispetto ad altri paesi europei. Attualmente la spesa per la sanità si attesta intorno al 6,3% del prodotto interno lordo, un valore significativamente inferiore rispetto a quella soglia del 7% che dovrebbe essere raggiunta per continuare a garantire la sostenibilità del nostro sistema sanitario nazionale pubblico, universale ed equo. Questo dato conferma il fatto che la sanità non è stata e non è certamente una priorità di investimento per tutti i governi che si sono susseguiti nel corso del tempo. Questo porta conseguenze drammatiche sia dal punto di vista della qualità dell’assistenza sia da quello delle cure per i cittadini.

Nel 2020 avevo ancora una speranza che andava oltre la paura e l’incertezza. Credevo che un disastro come una pandemia su scala mondiale avrebbe spinto verso una nuova riforma sanitaria. Immaginavo una società capace di iniziare ad affrontare le grandi sfide globali con un approccio One Health che interconnette le dimensioni uomo, animale e ambiente: e invece, alle porte del 2025, assistiamo a un mondo che sembra aver dimenticato la lezione. Gli investimenti nella sanità pubblica non sono sufficienti mentre le disuguaglianze nell’accesso alle cure aumentano. Il negazionismo scientifico è tornato in auge con governi che strizzano l’occhio al mondo antiscientifico e cavalcano teorie complottiste. La più grande potenza mondiale con Donald Trump esce dall’Oms (l’Organizzazione mondiale della Sanità), indebolendo la cooperazione globale sulla salute. Le istituzioni sanitarie sono sotto attacco, e chi lavora per la salute pubblica si ritrova sempre più isolato.

Il peso di cinque anni sprecati

Quello che oggi pesa maggiormente sulle mie spalle è  l’eredità sprecata della pandemia. La fatica e l’impegno di quei momenti sono stati vanificati dall’assenza di politiche per un vero potenziamento del Sistema sanitario nazionale. Durante la pandemia, nelle anticamere filtro della terapia intensiva, eravamo noi operatori sanitari a fronteggiare l’ignoto durante la prima ondata con risorse limitate ed insufficienti. Eppure, allora, credevamo che il nostro operato avrebbe prodotto un cambiamento sostanziale nella mentalità dei decisori che ci avrebbero, finalmente, visti come priorità. Allora ci chiamavano eroi, ma oggi il personale sanitario fugge all’estero o lascia il Ssn per la sanità privata.

Secondo i dati disponibili, tra il 2019 e il 2022, oltre 11.000 medici hanno lasciato il sistema pubblico. Nel primo semestre del 2023, si sono registrate ulteriori 2.564 dimissioni. Per quanto riguarda gli infermieri, tra il 2021 e il 2022, ben 15.450 professionisti con contratto a tempo indeterminato hanno rassegnato le dimissioni volontarie. Il sistema sanitario pubblico italiano sta perdendo i suoi professionisti e con loro la qualità dell’assistenza. Il Pnrr (Piano nazionale di ripresa e resilienza) doveva essere la chiave per una riforma epocale della medicina territoriale con le case della comunità ed il potenziamento dell’assistenza domiciliare. Oggi, quelle strutture restano in gran parte progetti su carta o “scatole vuote”, mentre negli ospedali pubblici il personale è sempre più demotivato. La medicina del territorio sarebbe dovuta divenire il pilastro del Ssn, ma i medici di base scarseggiano, i pronto soccorso sono al collasso e le liste d’attesa si allungano, costringendo molti italiani a ricorrere al privato. La medicina di prossimità, che doveva alleggerire il carico sugli ospedali è stata soffocata dalla burocrazia e dalla mancanza di investimenti reali.

Se nel 2020 per qualche mese siamo stati degli “eroi”, oggi siamo solo numeri. Allora ci dicevano che non potevamo fermarci perché c’era una pandemia, e oggi non possiamo farlo per evitare che il sistema sanitario pubblico crolli. Resta l’amara sensazione di un’occasione sprecata. Un momento storico che avrebbe potuto segnare la svolta per il Ssn e che invece ha lasciato solo promesse mancate e macerie. E il paradosso più grande è che oggi siamo più stanchi, più sfiduciati, più disillusi di quanto lo fossimo allora. Nel 2020 avevamo paura, ma anche speranza: nel 2025 resta unicamente la consapevolezza di essere stati dimenticati.

Martina Benedetti lavora come infermiera nel reparto di terapia intensiva di un ospedale toscano. Collabora con Wired da gennaio 2025.

Fonte : Wired