“Se Atene piange, Sparta non ride”. La citazione – libera – tratta dall’Aristodemo di Vincenzo Monti, trae perfetta applicazione nelle due sponde calcistiche di Manchester, passate dal contendersi trofei a cercare di salvare una stagione cominciata con andatura lenta ora divenuta claudicante e sofferente. Ai dolori dello United, tra acquisti non centrati, equivoci tattici e cambi di guida tecnica sprofondato in quindicesima posizione a più di trenta punti dalla vetta ed oltre dieci da un piazzamento utile per accedere ad una coppa continentale la prossima stagione, si aggiungono ora anche quella della sponda City. La doppia sconfitta con il Real Madrid ha sancito la prematura eliminazione dalla Champions, dove gli Sky Blues avevano sempre raggiunto gli ottavi di finale nelle ultime undici edizioni – nove delle quali con Guardiola in panchina – alzando al cielo la coppa nel 2023 e centrando una finale e due semifinali.
Il k.o. sia all’andata che al ritorno nel doppio confronto con i blancos ha fatto portato definitivamente a galla ciò che, comunque, gli ultimi mesi avevano fatto intravedere nelle acque di un mare tutt’altro che calmo. La squadra è da tempo tagliata fuori dalla lotta per il titolo, staccatissima dalla capolista Liverpool, ha già salutato la Coppa di Lega (piegata dal Tottenham, che nel turno successivo dei quarti quasi per par condicio ha eliminato anche lo United) e si è salvata nel quarto turno di FA Cup sul campo del Leyton Orient – formazione militante nella terza serie britannica equivalente alla nostra Lega Pro – imponendosi per 2-1 ribaltando nella ripresa lo svantaggio maturato nella prima metà di gara.
Anche se il rischio “zero tituli” – per citare Mourinho – è stato scongiurato con la salvifica lotteria dei rigori della Community Shield di agosto (vittoria ai rigori nel derby “Made in Manchester” giocato a Wembley), definire fallimentare l’anno dei “Citizens” finora è esercizio piuttosto semplice. Anche in considerazione di un mercato magari meno faraonico di altre occasioni, ma che ha pur sempre fatto registrare un passivo di un centinaio di milioni di euro nel bilancio acquisti-cessioni, appesantito dall’ultimo colpo invernale messo a segno prelevando González dal Porto. Pesa quello che il tecnico spagnolo ha definito “il principio di un ricambio generazione”, il quale porterà ad una progressiva rinuncia a quegli elementi determinanti in un ciclo di successi, come i sei primi posti nelle ultime sette edizioni della Premier. Ma rispetto al medesimo processo già avviato – ad esempio – proprio dal Real (a Madrid negli ultimi quattro anni sono arrivati gli Under 21 Camavinga, Tchouaméni, Güler, Bellingham ed Endrick), quello in atto nella sponda blu di Manchester dà l’impressione di avere una gestazione più lunga e complessa. E soprattutto meno generosa in termini di vittorie.
C’è poi la questione Guardiola. Spinosa quanto basta, perché Pep lo scorso novembre ha allungato l’accordo che lo legherà al club fino al 2027, con l’annuncio arrivato nel momento più complicato della sua lunga permanenza a Manchester, ovvero nel bel mezzo di un filotto di sei sconfitte tra campionato e coppe ed un solo pari, in casa col Feyenoord nel quinto turno di Champions. Il mare si è già spaccato a metà, tra chi sostiene che la rivoluzione morbida ma inevitabilmente progressiva che il City dovrà effettuare è necessario che contempli anche un cambio di guida tecnica, e chi invece vede Guardiola come il timoniere che la dovrà condurre perché quei 18 trofei messi in bacheca sono molta farina del suo sacco. Pep, chiamato in causa dopo l’uscita di scena nel doppio confronto col Real, non ha esternato alcuno dubbio: “Voglio continuare”. Ma la variabile-vittoria, seppur concessa come non aleatoria nel ciclo d’oro del City che in fondo lui a contribuito a plasmare, rischia di diventare da preziosa alleata a principale accusatrice.
Fonte : Today