Glovo, “Turni migliori in cambio di informazioni sui colleghi”. Due rider fanno causa all’app di food delivery

Uscivo di casa con l’intento di percorrere le strade facendo micro-missioni per consegnare il cibo. Adrenalina pura. Prendi la consegna, vai e la porti a termine come in un videogame. E ci credevo fino in fondo”. A parlare è Marie (il nome è di fantasia), che lavora come rider a Torino dal 2016. In sella a una bici muscolare ha iniziato il lavoro come fattorina per Foodora, azienda che poi è stata acquisita dalla multinazionale spagnola Glovo nel 2016. Da lì, nel giro di qualche anno, il cambio di passo è stato evidente e il lavoro si è complicato sempre di più. Difficile mantenere alto il punteggio che permette ai rider di prenotare le ore di lavoro sulla strada. Glovo la vende così: se pedali non c’è nulla di cui temere perché sarai premiato con un punteggio alto, e di conseguenza potrai scegliere di lavorare negli orari migliori per te. Nella pratica però, il ritratto che fa Marie non è esattamente questo.

Nel 2016 ho iniziato a lavorare per Glovo e non ho mai smesso per quattro anni, ma non ce la facevo: pedalare in bici è stancante e volevo fare 6 ore al posto di 8, ma così non arrivavo a guadagnare abbastanza” aggiunge la rider. In quel momento alcuni suoi colleghi torinesi stavano intentando cause di lavoro contro Glovo accompagnati dall’avvocata Giulia Druetta, che da tempo con il suo studio si occupa della difesa di questi lavoratori. Marie era titubante, ma alla fine “parlandone con il mio supervisore ho deciso di lasciare stare”. Da quel momento però è stata inserita in un gruppo Whatsapp chiamato “Veteran”. All’interno c’erano lei, un’altra rider torinese e dieci lavoratori che da tempo facevano consegne in città. Quasi tutti italiani tranne due, che però l’italiano lo parlavano bene.

Un gruppo privilegiato nascosto

“Ci chiedevano di contribuire con informazioni utili all’azienda: dovevamo fargli presenti feedback tecnici sul funzionamento dell’app che poi davano ai programmatori, dargli informazioni sul comportamento di alcuni colleghi e sugli scioperi dei colleghi pakistani, dirgli se c’erano iniziative legali portate avanti dall’avvocata Druetta” aggiunge Marie, che si è prestata a farlo perché ricorda di aver vissuto “una grandissima confusione” e di come si sentisse “senza alternative”. Per anni, soprattutto durante il Covid-19, ha lavorato tutti i giorni della settimana per 8-10 ore: “Mi ero applicata tanto per ottimizzare il mio punteggio” dice, e mantenerlo a quel livello con Glovo che continuava a modificare il funzionamento dell’algoritmo era ormai quasi impossibile. L’alternativa, per non soccombere a un’organizzazione del lavoro più simile a una roulette russa che non lascia scampo, era quindi cedere alle richieste dell’azienda.

A raccogliere e fare tesoro delle informazioni dei rider “veterani” scambiate in chat c’erano alcuni Glovo specialist e operation manager, figure chiave nell’organizzazione del lavoro della multinazionale perché fungono da intermediari con i vertici dell’azienda osservando i rider in strada. Dipendenti che secondo Marie fanno solo il loro pezzo di lavoro, senza preoccuparsi troppo di chi sta sotto di loro: “Non c’è nessuna cooperazione vera e propria tra rider e il gradino più alto, anzi un’estraneità totale. Ma eravamo deboli entrambi: in due non avremmo fatto una forza contro Glovo”. Il meccanismo era ben oliato: se i rider all’interno del gruppo fornivano informazioni, allora gli erano magicamente attribuiti dei turni di lavoro in più. “Proprio quelli di cui avevi bisogno, negli orari di maggiore affluenza. Così fare il rider era veramente possibile” aggiunge la donna.

Fonte : Wired