“C’è tanta tensione. Negli eventi in cui si parla di Intelligenza artificiale oramai si taglia col coltello. Gli investitori sono terrorizzati da quello che può succedere. Terrorizzati e esaltati. In ballo c’è una quantità di denaro mai vista. E una tecnologia dove chi vince prende tutto”. Marco Trombetti è stato tra i pochi italiani presenti al summit sull’Intelligenza artificiale di Parigi. Di ritorno, si prende qualche giorno prima di parlarne. Impegni, sicuro. È tra gli imprenditori italiani che più ne sanno di Ai. La sua Traslated ha 25 anni e da altrettanti lavora nel campo delle traduzioni e dell’Ai. Vende i suoi servizi a SpaceX, a Uber, a Airbnb. Ma tempo per metabolizzare impressioni, messaggi, direttrici. “Difficile dire quanto un ritorno negli investimenti oggi sia una speranza vana. Io prospettive non ne vedo. Oggi fanno soldi chi da chip e chi fa infrastrutture. Gli altri procedono per tentativi, molti stanno perdendo, tantissimi perderanno in futuro. La loro paura è giustificata”.
Trombetti, non mi parlerà male proprio lei delle prospettive dell’Ai?
“Tutt’altro. Credo che sia la più grande rivoluzione economica e sociale dell’umanità. Ma gli investitori nel settore oggi hanno un problema gigantesco: nessuno può permettersi di sbagliare i tempi di gioco”.
Cosa intende?
“Che fuori, all’apparenza, sembrano esserci tante persone pronte a mettere soldi. Investitori pronti a giocarsi la partita. Ma la tensione è dietro ogni euro investito. Tutti temono di sbagliare. Oggi più che mai nella storia dell’economia digitale. Perché oggi sbagliare nei tempi, investire male, puntare sull’azienda sbagliata vuol dire farsi molto male. La quantità di denaro che si sta muovendo su questa tecnologia è impressionante”.
Tensione e entusiasmo sembrano sentimenti difficili da coniugare.
“In arabo c’è una frase che trovo particolarmente azzeccata: Fil Mishmish. Significa più o meno ‘domani arrivano le albicocche’. È un’espressione che si usa per chiudere una trattativa che non sta portando a nulla, promettendo un futuro che però non arriva mai. È il modo di rinviare una speranza, di dare l’illusione che qualcosa di positivo stia per succedere, quando in realtà si sta solo rimandando”.
Le albicocche nella prima ondata tecnologica degli anni Dieci c’erano, sono nati colossi del digitale, decine, centinaia di aziende prospere. Qual è la differenza con questo momento?
“Che tutti oggi hanno paura che ci sarà un solo vincitore. Nella prima ondata di internet era una corsa all’oro. La rete offriva un numero infinito di applicazioni possibili, abbattendo costi. Potevano nascere tante aziende diverse per ogni settore di mercato. Internet era un abilitatore di cose e tutti potevano farlo lanciando progetti con pochi spiccioli. Oggi per entrare in questa corsa servono miliardi. E l’Ai è una tecnologia che quando avanza di livello non ammette numeri due o numeri tre. Tutto il resto diventa velocemente obsoleto”.
Sta dicendo che aziende che hanno raggiunto miliardi di valutazione potrebbero sgonfiarsi?
“Sto dicendo che tutti oggi stanno correndo per raggiungere il livello più potente possibile di intelligenza artificiale. L’Agi, per intendersi. Ma le aziende che lo stanno facendo lo fanno con pochissima differenza tra di loro. Tutti addestrano più o meno con gli stessi dati. Intanto l’addestramento delle reti non è più un capex (una spesa in conto capitale, fissa, fatta solo una volta, come un computer, ndr) ma è diventato un opex (una spesa operativa, come l’energia elettrica, ndr). In uno scenario del genere il nuovo rende subito il resto obsoleto. Chi cadrà si farà male”.
A queste aziende cosa resterà quindi?
“La tecnologia è replicabile. Resterà solo il capitale umano, poco altro”.
Chi vince la partita dell’Ai vince tutto?
“La paura più diffusa al momento è quella. Che una sola azienda vincerà la partita mondiale dell’Intelligenza artificiale. Per intendersi, che invece di 5 big tech, in futuro ce ne sarà soltanto una”.
È scenario possibile?
“Difficile dirlo. DeepSeek ha dimostrato che con poche risorse magari non batti il più grosso, ma gli crei dei problemi. Che una fetta di mercato ai più piccoli possa rimanere, arginando la possibilità di concentrazioni monopolistiche. Ma sono dinamiche difficili da prevedere. Per questo c’è tensione. Ma per lo stesso motivo c’è speranza e si intravedono segnali positivi dalla competizione presente e futura”.
A Parigi come è andata?
“Per me è stato un grande successo francese e un grande flop europeo. Macron è stato chiaro e strategico. Gli altri paesi europei non sono nemmeno pervenuti. Macron ha capito l’impatto dell’Ai e sta costruendo una strategia a blocchetti per ottenere il massimo, puntando sui suoi punti forti: energia nucleare, datacenter e modelli linguistici come Mistral. Sta investendo sul capitale umano, convertendo i politecnici in scuole di intelligenza artificiale e puntando a creare 100 mila talenti Ai l’anno. È una strategia. Quella che altrove manca”.
Quello che manca in Europa.
“L’America e la Cina stanno facendo tutto per la supremazia tecnologica in questo settore. Macron muove una pedina, in piccola parte gioca la sua partita. L’Europa non ha capito come né che partita si sta giocando né di conseguenza come giocarla. Rischia nel medio periodo di perdere ricchezza, qualità della vita e soprattutto mercato. Mentre il mondo si affaccia a una rivoluzione epocale, l’Europa regola. Ed è un messaggio negativo da tuti i punti di vista: verso gli altri partner, verso i competitor, verso le nuove generazioni che si sentono vivere in un Paese vecchio e alle quali si dà un messaggio chiaro: se volete innovare, andatevene”.
Nemmeno a lei piace l’Ai Act?
“Non è che non mi piace. È che è già obsoleto. Regola già meccanismi che non esistono. E impedisce innovazioni sul settore. Vedi il caso del riconoscimento delle emozioni. Ma come faccio io che mi occupo di traduzioni a migliorare il mio servizio se non posso capire le emozioni che accompagnano un’espressione? È solo un esempio, ma ciò che si è regolato va al di là di quello che il legislatore poteva immaginare”.
Sta dicendo che il legislatore non aveva chiara la materia su cui ha legiferato?
“Sì”.
Cosa dovrebbe fare la politica?
“Nei miei colloqui a Parigi il punto sulla politica è stato: voi non incidete sull’innovazione, ma quello che ci serve è garantire asset di lungo periodo. E al momento uno dei migliori asset che come europei abbiamo è la Groenlandia”.
La Groenlandia?
“Certo. Lì l’Europa può creare datacenter con costi più bassi di raffreddamento, oltre a essere un punto strategico di contatto dati tra l’Euoropa e gli Stati Uniti, dove si può trasmettere a bassa latenza. Oggi è forse difficile anche pensarlo, ma domani sarà fondamentale. La Groenlandia va difesa”.
Lei parla di domani, di lungo periodo. È ancora possibile pensare strategie a lungo periodo dopo il tempo perso finora?
“Il tempo perso è una falsa illusione. Il tempo non sta giocando a nostro sfavore. Le distanze create dagli Usa con OpenAi rispetto al resto del mondo oggi sono si sono già accorciate. Il tempo può essere nostro alleato. Ma la partita non può che essere giocata in chiave europea”.
Cosa la preoccupa allora rispetto al tema europeo?
“Ci sono un sacco di cose che mi preoccupano. La questione delle regole mi preoccupa, perché sembrano fatte con poca competenza. Io credo che il legislatore non abbia capito il fenomeno. Hanno confuso i rischi con le opportunità. È una legislazione miope rispetto alla realtà.
Ma il problema più grande è un altro”.
Quale?
“Che questo approccio farà scappare i giovani talenti. Gli innovatori non si sentono accolti in Europa. Ma se ti chiedi cosa devi fare per accogliere il talento capisci bene che l’Ai Act fa la cosa contraria. Non capiscono il fenomeno, mettono sanzioni enormi per ogni errore, e chi innova sa quanto gli errori sono importanti”.
Fonte : Repubblica