“Il seme del fico sacro” è uno di quei casi in cui la materia magmatica del film è inscindibile dall’esperienza personale dell’autore. Lo scrive e dirige Mohammad Rasoulof, regista iraniano in attività da vent’anni e che da quasi vent’anni è alle prese con le angherie della Repubblica Islamica a causa del suo lavoro di regista. Nel 2010 viene condannato per la prima volta a sei anni di prigione, poi ridotti a uno, e in seguito gli è impedito di viaggiare e sottratto il passaporto, con costanti accuse e sentenze che gli fanno conoscere da vicino le carceri iraniane – tra cui quella di Evin, la tristemente celebre struttura di Teheran dove è stata reclusa anche la giornalista Cecilia Sala.
Una sorte che Rasoulof condivide con altri suoi compatrioti e colleghi, tra cui Jafar Panahi, con cui ha collaborato in passato e che nel 2022 non ha potuto ritirare il Premio speciale della giuria al Festival di Venezia per il suo “Gli orsi non esistono”, poiché arrestato alcuni mesi prima. Fato simile toccò proprio a Rasoulof nel 2020, quando vinse l’Orso d’oro per “Il male non esiste” al Festival di Berlino 2020. E che stava per toccargli di nuovo l’anno scorso, quando è fuggito in tempo dall’Iran (senza farci ritorno) per presentare “Il seme del fico sacro” in concorso al Festival di Cannes 2024, dove il film ha vinto Premio speciale e che adesso è anche il contendente della Germania agli Oscar 2025 per il Miglior Film Internazionale.
“Il seme del fico sacro”, la trama e i temi del film
Allora già da una premessa simile si capisce come il cinema di un autore come questo non possa essere un cinema neutro. “Il seme del fico sacro” è un film fluviale: dura 168 minuti, dei quali la prima inquadratura sembra preannunciare una storia di fantasmi che popolano la testa, le strade e le case. Un’anticipazione delle proiezioni interiori di un uomo, il giudice Iman (Missagh Zareh), le cui certezze iniziano a sgretolarsi quando da un momento all’altro non riesce più a trovare la sua pistola. L’ha persa o gli è stata sottratta? Di chi fidarsi? Perché questo di Rasoulof è innanzitutto la messa in copione della paranoia come malattia mentale di un Paese posto in scacco da un regime dittatoriale costruito sullo spiare, sugli interrogatori, sull’instillare il dubbio.
Ma “Il seme del fico sacro” è anche molte altre cose. È una pellicola che attraversa forme e dimensioni. Innanzitutto il dramma borghese, che analizza lo strato della società “riflessivo” che sta tra le linee di comando e l’istinto popolare, con le questioni e i battibecchi interni a una famiglia tradizionale e benestante come quella di Iman, composta da una moglie devota, Najmeh (Soheila Golestani), e due figlie adolescenti, Rezvan (Mahsa Rostami) e Sana (Setareh Maleki). Un nucleo alle prese con una crisi del rapporto con il proprio status sociale – essere promosso per Iman implica una totale adesione e complicità alle pratiche atroci del regime – e anche con la fede, con Rezvan e Sana che rigettano l’imposizione di istituzioni teocratiche come il velo.
Lo scenario sociale e politico della pellicola
Sullo sfondo del film ci sono infatti le proteste (represse duramente) che hanno attraversato l’Iran tra il 2022 e il 2023, scaturite a seguito della morte sotto custodia della polizia della giovane Mahsa Amini, arrestata per un incorretto utilizzo dell’hijab. Delle immagini di questi scontri “Il seme del fico sacro” si innesta attraverso inserti reali ripresi dagli smartphone, e che Rasoulof utilizza per raccontare anche lo spaccato generazionale tra genitori e figli, tra istituzioni e protestanti.
I primi espressione interna (consapevole o inconsapevole) di un meccanismo politico e culturale che esprime e insabbia attraverso un’informazione tradizionale come quella della TV e dei telegiornali. I secondi risvegliati all’attivismo anche grazie a una condivisione delle notizie non filtrata e trasversale sui social network, nonostante le ingerenze verticali di cui sono vittime anche questi (pensiamo alle ambiguità di X con Elon Musk, strumento di comunicazione ancora potentissimo eppure tutt’altro che ‘libero’).
La natura da film di genere
“Il seme del fico sacro” è poi anche un thriller. Classico: fatto di domande, di ricostruzione dei fatti, di pedinamenti e raccolta di testimonianze. Psicologico: si sbriciola la fiducia di Iman nei confronti delle donne con cui vive in casa, le quali diventano, al di là dell’impressione iniziale, le vere protagoniste del film in nome di una solidarietà femminile che sfida (non in maniera placida) preconcetti e dettami interiorizzati. Quello dell’uomo è infatti un personaggio pensato a uso e consumo della metafora del terrore mentale e pervasivo del regime, in cui convivono padre e aguzzino, cosa che gli fa scontare in parte un’evoluzione più netta che realmente sfumata.
E infine l’opera arriva a sfiorare addirittura l’on the road, ma persino il prison movie con tanto di rocambolesca fuga. Un continuo slittamento di genere cinematografico, non sempre accuratamente a fuoco negli equilibri di una sceneggiatura davvero ricca e poliforme, ma agile e che manifesta l’intenzione ostinata nel credere al cinema di intrattenimento come possibilità d’indagine sociale e politica. “Il seme del fico sacro” è infatti crudo e accorato, ogni tanto attraversato da un’ironia aspra poi strozzata in gola da continui rovesciamenti sempre più lanciati verso esiti drastici. Dove l’edificio del futuro si edifica sulle macerie dolorose di un presente fatto di dilemmi etici e personali, capace di chiedere un prezzo altissimo per una speranza di libertà.
Voto: 7.5
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Fonte : Today