Quando Shutter Island arriva in sala, esattamente 15 anni fa, diventa un vero e proprio caso cinematografico, visto che Martin Scorsese ancora una volta spiazza tutto e tutti, confezionando un film dalla potenza devastante. Shutter Island sarà un grandissimo successo al botteghino, ma soprattutto una delle rappresentazioni più affascianti del concetto di paranoia, di follia e soprattutto di dolore psicologico. Un film unico e per certi versi divisivo.
Da un grande romanzo, un film sugli abissi del dolore
Shutter Island vede la luce dopo essere stato in cantiere per diversi anni, fino a quando il romanzo originale di Dennis Lehane, “L’isola della paura”, non attira l’attenzione di Martin Scorsese e Leonardo DiCaprio, alla ricerca di un progetto comune su cui lavorare. La sceneggiatura di Laeta Kalogridis si distanzia in modo abbastanza circostanziale dalla fonte originale, e ci introduce al personaggio dell’ US Marshall Edward “Teddy” Daniels (Leonardo DiCaprio), che assieme al collega Chuck Aule (Mark Ruffalo), si reca presso l’ospedale psichiatrico di Ashecliffe, situato presso l’isola di Shutter, nella baia di Boston. Ai due è stato dato l’incarico di indagare sulla sparizione di una paziente, Rachel Solando, internata dopo aver ucciso i suoi bambini. La struttura è gestita dal Dr. John Cawley (Ben Kingsley) e dal Dr. Jerimiah Naehring (Max Von Sydow), che fin dall’inizio avranno un comportamento strano con i due Detective. Daniels però è lì anche per motivi personali: sull’isola si troverebbe infatti anche Andrew Laeddis.
Questi è l’uomo responsabile della morte della moglie di Daniels, Dolores, avvenuto diversi anni prima. Tuttavia, le indagini di Daniels lo trascineranno nel giro di pochissimo tempo in un ambiente ostile e inquietante, che a poco a poco diventerà una sorta di follia ad occhi aperti, dove ogni cosa pare perdere di senso, e dove, mentre i minuti passano, ci accorgiamo che nulla è come sembrava ad un primo sguardo. Scorsese ha sempre parlato nel suo cinema della realtà che si nasconde dietro l’apparenza, sia a livello micro, e cioè personale, sia a livello macro, come costrutto stesso della società che tende ad azzerare l’individuo diverso dalla norma. I suoi protagonisti spesso si sono sentiti in trappola, prima di tutto nella propria mente, e poi nel mondo reale. Questa è una costante in Taxi Driver e Mean Street, Re per una notte e Cape Fear, tutti film dove il concetto stesso di follia, è in realtà incrociato con le nostre fantasie, frustrazioni, con un’immagine totalmente falsata di noi stessi.
Scorsese ha un’incredibile capacità di descrivere un ambiente andando oltre la sua mera riproduzione, abbracciando la visione sovente distorta e personale dei suoi personaggi. Shutter Island è ambientato in un luogo dove il concetto di anomalia regna in modo sovrano. Siamo nel 1954, eppure quella struttura appare sbucata dal passato, dall’Inghilterra vittoriana, quando il concetto di disturbo psicologico, così come di malattia mentale, veniva trattato in modo violento, con vere e proprio torture. All’epoca l’approccio era già cambiato radicalmente, ma Daniels viene avvicinato da diversi pazienti, che gli consigliano di andarsene da quell’isola fatta di cunicoli, stanze, dove nulla pare avere più senso. Shutter Island è un film difficilissimo da definire secondo i canoni del genere. Scorsese volutamente vi inserisce infatti caratteristiche proprie del thriller psicologico classico, con cui omaggiare il grande Alfred Hitchcock, tuttavia il risultato finale è influenzato profondamente anche dai capolavori del noir francese.
Su tutti vale la pena citare soprattutto Le catene della colpa di Jacques Tourner. Ma poi ecco che si va anche più indietro, al cinema espressionista tedesco di Robert Wiene, alle angosciose atmosfere delle opere di Val Lewton.Tutto questo permette a Scorsese di creare uno scenario da incubo, dove la verità sfugge continuamente al protagonista, dove il razionale cessa di avere un reale ruolo nella narrazione, a mano a mano che Daniels si rende conto che c’è qualcosa che non va in quell’isola ma anche in lui. Tra quei pazienti Scorsese inserisce anche un riferimento ad un vero serial killer, William Heirens, il “Killer del rossetto”, che terrorizzò l’America degli anni ‘40. Shutter Island recupera difatti molto anche dal cinema carcerario, visto che tutto, dalle stanze, ai corridoi, arrivando poi al mare e a quel cielo perennemente grigio e ventoso, suggerisce la presenza di una gabbia che intrappola il protagonista. Quell’istituto in realtà ricorda soprattutto Alcatraz, un luogo da cui è impossibile fuggire, un girone dantesco.
Un film tragico, disperato ed elegantissimo
Leonardo DiCaprio ci dona una performance magnetica. Il suo Daniels si aggira pallido, perennemente angosciato da dubbi, da ciò che ricorda della Seconda Guerra Mondiale, con la liberazione di Dachau e la scoperta dei crimini dei nazisti, perso tra altri mille che stranamente cercano di ammonirlo, avvisarlo, mandarlo via da quel tetro luogo. Ma è soprattutto la perdita della moglie che lo tormenta, lo rende sempre più vittima della sua mente, di un vagare nelle tenebre alla ricerca anche del collega, che ad un certo punto pare essere sparito nel nulla. Il fatto che la rivelazione finale circa la sua vera identità, il motivo per cui si trova sull’isola, arrivi sulla cima di un faro, rende Shutter Island profondamente connesso al mito della caverna di Platone, così come al celebre “Il faro” di Edgar Allan Poe. Scorsese ci dona un plot twist magnifico: il Detective Aule in realtà è il Dottor Sheenan, lo psichiatra personale di Teddy, in realtà affetto da disturbo da stress post-traumatico.
Fonte : Wired